BLOG

Verso nuove strategie d’integrazione e inclusione sociale dei lavoratori migranti

Attualità - William Chiaromonte, Maria Dolores Ferrara - 18 Dicembre 2020

Nel 2000 le Nazioni Unite hanno proclamato il 18 dicembre come “Giornata internazionale del migrante”. Da allora, ogni anno in questo giorno, si organizzano in tutto il mondo manifestazioni, iniziative e altre attività dedicate ai migranti.

In questa occasione così significativa la nostra attenzione è rivolta, in particolare, alle possibili strategie per migliorare le condizioni d’integrazione e inclusione sociale dei lavoratori stranieri: le penose immagini di sofferenza e morte che quotidianamente ci troviamo di fronte devono, difatti, essere un monito per arare nuovi campi d’indagine e proporre innovative prospettive d’azione.

Secondo l’Istat, a gennaio 2019 gli stranieri presenti in Italia erano poco più di 5 milioni (per l’esattezza, 5.234.000, compresi i cittadini dell’Unione europea, vale a dire l’8,7% della popolazione totale). Considerando anche l’impatto dell’immigrazione irregolare – si stima che il numero degli stranieri irregolari  presenti in Italia, dopo aver toccato un minimo inferiore alle 300.000 unità nel 2013, abbia superato le 600.000 unità a gennaio 2020 – per eccesso potremmo arrivare a poco meno di 6 milioni di persone: all’incirca il 10% del totale della popolazione italiana. Nello stesso anno, il numero di stranieri conosciuti all’Inps era pari a 3.816.354, di cui 3.304.583 lavoratori (86,6%), 252.276 pensionati (6,6%) e 259.495 percettori di prestazioni a sostegno del reddito (6,8%).

A segnare idealmente uno spartiacque in relazione alle politiche messe in campo in Italia per l’integrazione dei migranti, e in particolare dei lavoratori stranieri, è stata la legge Bossi-Fini (l. 189/2002) che, intervenendo pesantemente sul testo unico sull’immigrazione (d.lgs. 286/1998), ha avviato una tendenza alla progressiva marginalizzazione di tali politiche che ha – malauguratamente – trovato molte conferme successive (e la stagione dei “pacchetti sicurezza”, fra le altre, ne è testimone).

Il lavoro, invece, rappresenta sicuramente lo strumento chiave per l’integrazione e l’inclusione sociale dei migranti (e non solo). È sufficiente ricordare che, ancora una volta a partire dalla legge Bossi-Fini, la farraginosa disciplina in materia di ingresso e soggiorno per lavoro ha determinato una chiusura pressoché totale dei canali d’accesso per lavoro, nonostante la strutturale richiesta di lavoratori stranieri in alcuni settori chiave del mercato del lavoro, e di conseguenza ha reso praticamente impossibile instaurare regolari rapporti di lavoro con costoro, così favorendo gli ingressi irregolari e incrementando il giro d’affari dell’economia sommersa. Gli stranieri si trovano, quindi, sostanzialmente impossibilitati a entrare e lavorare regolarmente in Italia, salvo poi essere periodicamente “sanati” ex post (si pensi, da ultimo, a quanto previsto nel pieno dell’emergenza sanitaria da Covid-19 dall’art. 103 del d.l. 34/2020).

Se si passa, poi, a valutare la possibilità per i migranti di accedere ai diritti sociali e, in particolare, alle prestazioni assistenziali, il cui godimento rappresenta senza ombra di dubbio un importante strumento per l’integrazione, non si può fare a meno di rilevare come sovente gli stringenti requisiti di accesso posti dalla legge abbiano finito per penalizzare proprio gli stranieri, buona parte dei quali ne sono risultati, di conseguenza, esclusi. Si pensi, solo per fare un esempio, alla denuncia alla Commissione europea presentata lo scorso 19 novembre da ASGI, Avvocati per Niente, Naga e L’Altro diritto, con la quale è stata sollecitata l’apertura di una procedura d’infrazione contro l’Italia in relazione al requisito di residenza decennale sul territorio nazionale per poter accedere al reddito di cittadinanza.

Da ultimo, sulle politiche per l’integrazione dei migranti hanno inciso pesantemente (e negativamente) anche le disposizioni contenute nei “decreti Salvini” (d.l. 113/2018, conv. in l. 132/2018, e d.l. 53/2019, conv. in l. 77/2019). Una parziale reazione a queste disfunzioni, peraltro, potrebbe scaturire dalle modifiche che dovrebbero essere apportate in tempi brevi a questi ultimi provvedimenti: il 9 dicembre 2020, difatti, la Camera ha approvato il decreto che modifica il cuore dei decreti sicurezza, nell’attesa che si pronunci, in seconda lettura, il Senato.

Ciò, tuttavia, non basta. Occorre anche un sistematico ripensamento delle regole di accesso al mercato del lavoro e delle politiche di sostegno e di finanziamento per le misure d’integrazione dei migranti nelle comunità, nei territori e nei luoghi di lavoro. In tale prospettiva, un importante ruolo è e potrà essere giocato dalle organizzazioni sindacali e dalla contrattazione collettiva.

Questa prospettiva comincia, difatti, a intensificarsi nelle esperienze della contrattazione collettiva, soprattutto in alcuni settori ad alta concentrazione di manodopera immigrata (agricoltura ed edilizia, ad esempio). Le soluzioni offerte dalla contrattazione collettiva diventano così strumenti di inclusione fisiologica degli stranieri e di prevenzione dei fenomeni di segregazione professionale, contribuendo a radicare nella comunità lavorativa, nelle trattative sindacali, nel management delle singole imprese la cultura dell’inclusione e della valorizzazione delle differenze.

Dall’inizio degli anni Novanta, infatti, i contratti collettivi nazionali hanno iniziato ad interessarsi ai temi collegati alla manodopera straniera. Risalgono a questo periodo, fra l’altro, le prime clausole che stabilivano permessi specifici per rientri in patria temporanei oppure che prevedevano corsi di alfabetizzazione e qualificazione professionale. Questi modelli hanno trovato, poi, un’ulteriore conferma anche nella contrattazione nazionale e territoriale più recente.

Da una diversa – ma parallela – angolazione va segnalato, infine, il crescente ruolo assegnato e svolto dalle parti sociali sul piano del governo della legalità e della prevenzione dei fenomeni elusivi e di sfruttamento. Si conferma, in particolare, la funzione strategica svolta dalle parti sociali (ma anche dalle associazioni del terzo settore) anche nel recente Piano triennale di contrasto allo sfruttamento lavorativo in agricoltura e al caporalato per il biennio 2020-2022. In esso si sviluppa una strategia nazionale di contrasto al caporalato e allo sfruttamento lavorativo in agricoltura grazie all’intervenuta concertazione tra diversi attori istituzionali coinvolti a livello centrale e decentrato e al confronto con i rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro del settore agricolo e delle associazioni del terzo settore.

All’attività di contrattazione collettiva, dunque, si affiancano gli strumenti e le politiche sindacali d’integrazione e d’inclusione sociale dei lavoratori stranieri attraverso il governo del mercato del lavoro. Questo approccio, in relazione ai migranti, da un lato valorizza un’antica e tradizionale funzione svolta dalle organizzazioni sindacali, e dall’altro conferma la necessità e l’urgenza di un intervento che miri a sanare le perduranti incoerenze e le lacune che caratterizzano il testo unico sull’immigrazione in materia di accesso al lavoro degli stranieri.

*Gli autori sono i giuslavoristi William Chiaromonte, Ricercatore nell’Università degli Studi di Firenze e Maria Dolores Ferrara, Professoressa Associata nell’Università degli Studi di Trieste.

 

Potrebbe interessarti anche