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Vale un mese: Alla ricerca della parità retributiva

Giornate Internazionali - Carmela Garofalo - 1 Settembre 2023

Il 18 settembre di ogni anno si celebra la Giornata internazionale della parità retributiva, istituita nel 2019 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, al fine di promuovere un’adeguata sensibilizzazione in merito agli sforzi da compiere per raggiungere l’obiettivo della parità salariale tra uomini e donne.

Si chiama gender pay gap e significa, in breve che, a parità di mansione, lo stipendio di un uomo é più alto di quello di una donna.

Ma quando si parla di gender pay gap si cade in facili fraintendimenti che vanno chiariti.

Di esso si legge diffusamente nelle raccolte statistiche, ma non si spiega alla luce del fatto che in Italia la possibilità per un datore di lavoro di retribuire una lavoratrice meno di un lavoratore a parità di mansioni si pone in contrasto con diverse norme di legge (a partire dall’art. 37 Cost. per arrivare al d.lgs. n. 198/2006, passando per le l. nn. 903/1977 e 125/1991) e di contratto collettivo.

Le imprese italiane generalmente applicano i contratti collettivi, almeno di primo livello, che assicurano una copertura regolativa e protettiva. Ancora meno si giustifica il gender pay gap nell’impiego pubblico dove la parità di trattamento è prevista per legge (art. 45 d.lgs. n. 165/2001).

Quindi la lettura dei dati statistici deve essere realizzata in modo più complesso, non potendo essere ricondotta semplicemente al fatto che a parità di lavoro le donne vengono pagate di meno.

Una tale conclusione, potrebbe sostenersi solo in relazione a quei contesti aziendali in cui non viene applicato il contratto collettivo, quindi realtà tendenzialmente molto piccole, che vivono ai limiti o al di là della legalità, anche facendo uso di lavoro in tutto o in parte irregolare o sommerso.

Appare chiarificatrice, a questo punto, la fondamentale distinzione che spesso viene ignorata: gap “salariale” e gap “reddituale” non significano la stessa cosa, intendendosi con la prima espressione, come detto, il differenziale nei salari medi (ovviamente a parità di lavoro) e con la seconda un concetto più ampio, onnicomprensivo, che tiene conto delle differenze di carriera e di scelte lavorative tra uomini e donne ed è proprio su questo secondo indice che è necessario ragionare.

La questione non va, infatti, posta sul piano della diversità di retribuzione oraria tra uomini e donne a parità di inquadramento e mansioni, ma va affrontata da una prospettiva molto più complessa che travalica i concetti della discriminazione diretta per approdare a quella indiretta e andare addirittura oltre, nell’area, cioè delle condotte perfettamente lecite seppur condizionate da stereotipi di genere.

Così incide sul gap reddituale, la differenza dei livelli retributivi tra i diversi settori merceologici/contrattuali nonché la sovrarappresentazione femminile in alcuni di questi e la sottorappresentazione in altri.  Le differenze retributive tra settori produttivi e la distribuzione non omogenea di uomini e di donne nei vari settori produce, quale effetto connesso e conseguente, anche quello di un differenziale reddituale di genere. Una fotografia di questo fenomeno, chiamato segregazione occupazionale, viene annualmente scattata dal Ministero del lavoro con un decreto nel quale si individuano i settori e le professioni caratterizzati da un tasso di disparità uomo-donna che supera almeno del 25% il valore medio annuo, così mettendo in evidenza la non omogenea presenza femminile nei diversi settori produttivi al fine di individuare l’area di applicabilità degli incentivi per le assunzioni ai sensi del Reg. (UE) n. 651/2014 e dell’art. 4, co. 11, l. n. 92/2012.

Inoltre, l’alto livello di precarietà lavorativa femminile, cioè una occupazione veicolata tramite contratti a termine, a tempo parziale o intermittente, di lavoro occasionale e di collaborazioni coordinate e continuative, amplifica le differenze reddituali, poiché chi ha un contratto a tempo indeterminato guadagna, comunque, più di chi è precario, se non altro in quanto destinatario degli emolumenti collegati all’anzianità di servizio e con prospettive di progressioni di carriera.

Condiziona il gender pay gap anche la segregazione verticale ossia la diseguaglianza di genere nelle progressioni di carriera che incide sui differenziali reddituali. Nelle posizioni apicali delle aziende private tradizionalmente v’è una decisa sovrarappresentazione maschile tanto da spingere il legislatore italiano ad approvare la l. n. 120/2011, meglio conosciuta come legge Golfo-Mosca, recante modifiche al testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria concernenti la parità di accesso agli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate in mercati regolamentati. Questa normativa ha imposto la c.d. quota di genere nei board di alcune tipologie di società al fine di assicurare la presenza anche del genere meno rappresentato (di fatto quello femminile). I soffitti di cristallo sono molti e si ravvisano anche nel pubblico impiego, dove le discriminazioni di genere sono minori rispetto al privato o comunque più criptate.

L’effetto dei differenziali reddituali tra uomini e donne durante la carriera lavorativa si ripercuotono, ovviamente, anche sui redditi pensionistici (gender pension gap). Le pensioni delle donne sono inferiori rispetto a quello degli uomini, con l’eccezione che conferma la regola, delle pensioni ai superstiti, in cui, stante la maggior longevità delle donne rispetto agli uomini, le vedove son o in numero nettamente superiore e percepiscono assegni più alti rispetto ai vedovi, ad ulteriore conferma che le disparità di trattamento post mortem sono il frutto di quelle verificatesi in vita.

Da quanto sino ad ora detto, appare chiaro che in Italia il gender pay gap è fondamentalmente collegato alle carriere lavorative femminili e alla maggiore discontinuità lavorativa delle donne, entrambi fenomeni che trovano la causa principale nel fatto che l’attività di allevamento della prole e di cura familiare in generale, grava sulle medesime così riducendo le loro chances occupazionali e di carriera. Le donne assumono una parte sproporzionata delle responsabilità personali e familiari, compreso il lavoro di cura non retribuito. Queste attività possono non soltanto ostacolare l’esercizio di un lavoro retribuito, ma anche semplicemente la ricerca attiva di un lavoro o anche l’accettazione di un’offerta di lavoro con breve preavviso.

Quindi il fenomeno del gender pay gap è più complesso di quello che appare e richiede azioni sinergiche ed integrate per migliorare la partecipazione complessiva delle donne nel mercato del lavoro, ampliando il loro accesso a tutte le professioni, affrontando le evidenti lacune nella qualità del lavoro, garantendo servizi pubblici di assistenza alla genitorialità e alla cura dei disabili, eliminando gli stereotipi di genere nell’accesso alle carriere STEM che aumentano le chanches occupazionali.

Obiettivi che ormai pervadono l’agenda di tutte le istituzioni e gli organismi a qualsiasi livello (sovranazionale, nazionale e regionale) e che trovano nell’approccio strategico del gender mainstreaming il loro perseguimento. Il “gender mainstreaming” risponde alla logica del “gender impact assestement”, ovvero della valutazione di impatto di genere, ex ante ed ex post, in ogni intervento politico e legislativo in ambito economico, nella consapevolezza che la crescita occupazionale e sociale delle donne passa necessariamente attraverso l’adozione di infrastrutture di sostegno all’organizzazione di vita e di presa in carico dei compiti di cura che gravano soprattutto su di loro.

Così nel più ampio contesto dell’Agenza ONU 2030 la parità di genere è un obiettivo da raggiungere (Sustainable Development Goal 5), quale diritto umano fondamentale e quale condizione indispensabile per uno sviluppo sostenibile. Soltanto la parità di accesso all’istruzione, alle cure mediche, al lavoro, così come la rappresentanza femminile nei processi decisionali, politici ed economici, sono in grado di assicurare economie sostenibili sul medio-lungo periodo.

Con lo stesso fine nasce anche la Strategia per la parità di genere 2020-2025 dell’UE, che presenta e racchiude le azioni e l’impegno della Commissione von der Leyen per garantire la parità di genere in Europa.

Tra i primi risultati della Strategia, il 4 marzo 2021 la Commissione ha proposto misure vincolanti per la trasparenza retributiva da cui poi è scaturita la recente direttiva (UE) n. 2023/970, volta a rafforzare l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro, o per un lavoro di pari valore che gli Stati membri dovranno recepire nelle rispettive normative interne entro il 7 giugno 2026.

L’8 marzo 2022 la Commissione europea ha adottato una nuova proposta di direttiva (COM/2022/105 final) per combattere la violenza contro le donne e la violenza domestica. La proposta punta a introdurre norme minime mirate sui diritti di questo gruppo di vittime di reati e a configurare come reato le forme più gravi di violenza contro le donne e di violenza online.

Un traguardo fondamentale è la direttiva sull’equilibrio di genere nei consigli di amministrazione (2022/2381/UE), che intende migliorare l’equilibrio di genere nelle posizioni decisionali delle imprese nelle principali società quotate dell’UE. Dopo 10 anni di negoziati, la direttiva è stata adottata il 22 novembre 2022.

L’8 marzo 2023 la Commissione europea ha avviato una campagna per combattere gli stereotipi di genere che interessano gli uomini e le donne in vari aspetti della vita, in particolare quando si tratta di fare scelte professionali, condividere le responsabilità di assistenza e prendere decisioni.

Volgendo lo sguardo al nostro Paese, l’effetto fortemente divaricante che la crisi pandemica ha avuto con riferimento all’impatto di genere, conferma l’anomalia di un “caso”, quello italiano, che richiede misure di intervento straordinarie, per colmare i deficit strutturali che la pandemia ha maggiormente aggravato.

Ciò spiega perché il PNRR pone al centro delle sue iniziative la mobilitazione delle energie femminili, in un’ottica di pari opportunità e di contrasto alla discriminazione di genere, obiettivi che intersecano trasversalmente pressoché tutte le Missioni.

Il contrasto alle divisioni di genere, e quindi la spinta all’occupazione femminile in termini di quantità e di qualità, può essere innescata dalle riforme nella Pubblica Amministrazione, che storicamente ha costituito un veicolo importante per l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro. I nuovi meccanismi di reclutamento proposti nella Missione n.1 e la revisione delle opportunità di carriera verticale e di promozione alle posizioni dirigenziali di alto livello, possono contribuire al riequilibrio di genere sia in ingresso sia nelle progressioni e rappresentare un modello per il settore privato, in linea con il secondo principio del Pilastro europeo dei diritti sociali. Anche le misure dedicate allo smart working nella Pubblica Amministrazione possono svolgere un ruolo di rilievo in termini di conciliazione vita-lavoro e cambiare le modalità di valorizzazione degli individui, privilegiando il raggiungimento degli obiettivi piuttosto che la mera presenza in ufficio. Saranno, tuttavia, tanto più efficaci per ridurre le diseguaglianze di genere, quanto più accompagnati da modelli culturali che spingano gli uomini a fruire di queste forme di flessibilità per assumere un maggiore ruolo nei compiti familiari.

Alcuni settori a forte presenza femminile (settore alberghiero, ristorazione e attività culturali) possono ricevere indiretto sostegno attraverso le misure di potenziamento dell’offerta turistica e culturale indicate sempre nella Missione n.1 (componente 3).

Per altro verso, il tracollo delle nascite deve essere contrastato con politiche di sostegno al welfare, evitando ulteriori penalizzazioni delle lavoratrici in relazione sia al reperimento, sia al mantenimento di un’occupazione, grazie a una distribuzione degli impegni familiari e a servizi in grado di ridurre i disincentivi alla genitorialità (si pensi agli asili nido, alla loro carenza e al loro costo).  Su quest’ultimo aspetto la Missione n.4 (specialmente la componente 1) intende mettere in campo un «Piano asili nido», affiancato dal potenziamento dei servizi educativi dell’infanzia (3-6 anni) e dall’estensione del tempo pieno a scuola, per fornire sostegno alle madri con figli piccoli e contribuire così ad accrescere l’occupazione femminile. A questo obiettivo concorrono anche le misure previste nel campo dell’istruzione, in particolare quelle che favoriscono l’accesso da parte delle donne all’acquisizione di competenze STEM, linguistiche e digitali.

Elementi di sostegno alla famiglia e alla natalità sono rinvenibili altresì nel c.d. Family Act. Si tratta del primo progetto organico di riforma delle politiche per la famiglia che fa leva su un potenziamento del sistema del welfare, tramite l’introduzione dell’assegno unico universale, la revisione e l’ammodernamento dei meccanismi che consentono la conciliazione dei tempi di lavoro e di cura dei figli a carico di entrambi i genitori e dei caregivers (d.lgs. n. 105/2022) e il sostegno ai percorsi educativi dei figli (anche disabili) , la sicurezza lavorativa, attraverso le misure di sostegno al lavoro femminile.

Nella Missione n.5 «Inclusione e coesione» sono previsti specifici investimenti per sostenere l’imprenditorialità femminile, un «Sistema nazionale di certificazione della parità di genere» con l’obiettivo di «accompagnare le imprese nella riduzione dei divari in tutte le aree più critiche per la crescita professionale delle donne, e rafforzare la trasparenza salariale», progetti sull’housing sociale per ridurre i contesti di marginalità estrema e a rischio di violenza che vedono maggiormente esposte le donne, strumenti per la valorizzazione delle infrastrutture sociali e la creazione di percorsi di autonomia per individui disabili, i cui effetti indiretti sull’occupazione delle donne dovrebbero transitare attraverso l’alleggerimento del carico di cura non retribuita gravante sulla componente femminile della popolazione.

Infine, nella Missione n.6, dedicata alla «Salute», è previsto il rafforzamento dei servizi di prossimità e di supporto all’assistenza domi-ciliare, così da contribuire a ridurre l’onere delle attività di cura, fornite in famiglia prevalentemente dalle donne.

Nel PNRR vi è, inoltre, la dichiarata intenzione di intensificare gli sforzi per contrastare il lavoro sommerso e di garantire che le politiche attive del mercato del lavoro e le politiche sociali «siano efficacemente integrate e coinvolgano soprattutto i giovani e i gruppi vulnerabili», con particolare riguardo alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro, «attraverso una strategia globale, in particolare garantendo l’accesso a servizi di assistenza all’infanzia e a lungo termine di qualità».

Palese è la correlazione del PNRR con la Strategia nazionale per la parità di genere 2021-2026, che si ispira alla già richiamata Gender Equality Strategy 2020-2025 dell’UE, fondata su cinque priorità (lavoro, reddito, competenze, tempo, potere), con l’ambizioso obiettivo di recuperare cinque punti percentuali entro il 2026 nella classifica del Gender Equality Index dello European Institute for Gender Equality, così rientrando nella media europea, da cui l’Italia dista 4,4 punti percentuali.

Per rafforzare la governance della Strategia 2021-2026, la legge di bilancio 2022 ha previsto l’adozione di un Piano strategico nazionale per la parità di genere, supportato dall’istituzione presso il Dipartimento per le pari opportunità di una Cabina di regia interistituzionale e di un Osservatorio nazionale per l’integrazione delle politiche per la parità di genere.

All’incremento della partecipazione delle donne nel mercato del lavoro si rapporta anche la normativa sulle pari opportunità, oggetto di importanti modifiche ad opera della l. n. 162/2021 che è intervenuta sul Codice delle Pari Opportunità (d.lgs. n. 198/2006), da un lato per raggiungere l’obiettivo fissato dall’Agenda ONU 2030 di adottare e consolidare politiche e provvedimenti legislativi che promuovano la parità di genere ; dall’altro lato per dare attuazione (in parte) alle riforme riconducibili alla prima componente della quinta Missione (“M5C1” – «Politiche per il lavoro») del PNRR tra cui quella di realizzare, in coerenza con le politiche europee (Gender Equality Strategy 2020-2025), una strategia nazionale per garantire la parità di genere, usufruendo delle risorse finanziarie stanziate del NGEU (Next Generation EU).

Come già anticipato, la Missione n.5 del PNRR prevede l’attivazione, entro il quarto trimestre del 2022, di un «Sistema nazionale di certificazione della parità di genere» diretto ad affiancare le imprese nell’adozione di policy adeguate a ridurre il divario di genere in tutte le aree maggiormente “critiche”.

Gli strumenti introdotti dal nostro legislatore per raggiungere il già menzionato obiettivo passano appunto dalla novella del d.lgs. n. 198/2006 (Codice delle Pari Opportunità).

Il primo, contenuto nell’art. 46-bis del Codice delle Parti Opportunità, aggiunto dall’art. 4, l. n. 162/2021, è la «certificazione della parità di genere», istituita a decorrere dal 1° gennaio 2022, volta ad attestare le politiche e le misure concrete adottate dai datori di lavoro per ridurre il divario di genere in relazione alle opportunità di carriera, ai livelli retributivi (per un lavoro di pari valore), alle politiche per la gestione delle differenze di genere e alla tutela della maternità, demandando ad appositi decreti attuativi il compito di stabilire, tra l’altro, i parametri minimi per il conseguimento della certificazione nonché le forme di pubblicità della stessa.

Per rendere operativo tale strumento è stata delineata la prassi di riferimento Uni/PdR 125:2022  che definisce le Linee guida sul sistema di gestione per la parità di genere. Corposo e innovativo è l’apparato premiale collegato alla neoistituita certificazione di genere che prevede in favore delle imprese che se ne dotino il riconoscimento di sgravi contributi o di punteggi aggiuntivi nella valutazione, da parte di autorità titolari di fondi europei nazionali e regionali, delle proposte progettuali ai fini della concessione di aiuti di Stato a cofinanziamento degli investimenti o nell’aggiudicazione di appalti pubblici.

Per ridurre il divario retributivo di genere, inoltre, la l. n. 162/2021, con la novella dell’art. 46 del Codice delle Pari Opportunità, ha rafforzato gli obblighi di trasparenza e comunicazione, estendendo quelli già vigenti per le aziende con più di 100 dipendenti a quelle che ne impiegano più di 50, ampliando il numero di medie imprese obbligate a redigere il rapporto sulla situazione del personale, maschile e femminile. Per le imprese con meno di 50 dipendenti (micro e piccole imprese) la redazione del rapporto resta discrezionale, diventando un obbligo se si vuole accedere alla certificazione di genere. Di rilievo è l’elencazione delle informazioni minime che devono essere inserite nel rapporto sulla situazione del personale sul luogo di lavoro, che deve essere redatto ogni due anni, disaggregando per genere ad esempio lo stato delle assunzioni, della formazione, della Cassa Integrazione, Guadagni, dei licenziamenti, dei prepensionamenti e pensionamenti e della retribuzione effettivamente corrisposta.

In attuazione di tale normativa, è stato adottato il Decreto interministeriale del 29 marzo 2022 che detta specifiche indicazioni sulle modalità di redazione del rapporto biennale, di trasmissione dello stesso alle rappresentanze sindacali, di accesso da parte dei dipendenti e delle rappresentanze sindacali per esigenze di tutela giudiziaria nonché da parte delle consigliere/i di pari opportunità (regionali, delle città metropolitane e degli enti). Infine, la previsione della pubblicazione in un’apposita sezione del sito del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali dell’elenco delle aziende che hanno ottemperato alla redazione del rapporto e quelle che non l’hanno fatto (c.d. politica di name and shame) rappresenterà un importante fattore di valutazione reputazionale per le aziende.

L’estensione e potenziamento degli obblighi di reporting, anche ad imprese con più di 50 dipendenti, dovrebbe favorire la riduzione del differenziale salariale.

Fermo restando il peso del danno reputazionale collegato alla mancata osservanza degli obblighi di trasparenza, è prevista anche una sanzione pecuniaria e, in caso di permanenza dell’inadempimento per oltre 12 mesi, la sospensione per un anno dei benefici contributivi eventualmente goduti dall’azienda.

Dal quadro sommariamente sopra delineato è evidente l’impegno istituzionale profuso per il raggiungimento della parità di genere. Ogni piccolo passo, ogni misura di supporto, ogni tentativo di modificare lo status quo a favore delle donne, contribuisce al cambiamento culturale, e dunque all’eliminazione di tutti quegli stereotipi – limitati e limitanti – che sono il nutrimento principale delle discriminazioni di genere in tutti gli ambiti.

Se la Giornata internazionale della parità retributiva celebra gli sforzi compiuti per favorire la parità di genere, ci ricorda anche che la strada per raggiungerla è ancora lunga.

 

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