Uso dei social e istigazione all’odio razziale: quanto vale un like?
L’adesione, attraverso un like, a un post pubblicato su un social può sembrare un gesto leggero e privo di contenuto, ma richiede una attenta ponderazione.
In tempi recenti, la giurisprudenza si è soffermata sul rilievo da assegnare al comportamento di chi metta like su Facebook a post antisemiti, successivamente rilanciati dai propri account social, interagendo con una comunità virtuale neonazista, il cui scopo principale è la propaganda e l’incitamento all’odio razziale.
L’autore era stato sottoposto alla misura cautelare dell’obbligo di presentazione e firma alla polizia giudiziaria per il reato di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione.
L’indagato aveva impugnato tale misura dinanzi al Tribunale del Riesame di Roma (ai sensi dell’art. 309 c.p.p.), il quale – con ordinanza del 25 giugno 2021 – confermava la decisione del GIP in ordine alla sussistenza dei gravi indizi del reato di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa di cui agli artt. 604-bis, comma 2, c.p. e 604-ter c.p. Più approfonditamente, secondo i giudici della cautela, il monitoraggio delle interazioni in tre distinti social network (Facebook, Vkontacte e Whatsapp) aveva svelato la creazione di una comunità virtuale, chiamata “Ordine Ario Romano” (O.A.R.), caratterizzata da una vocazione ideologica di estrema destra neonazista, avente tra i suoi scopi la propaganda e l’incitamento alla discriminazione per motivi razziali, etnici e religiosi. Altresì, dall’analisi delle attività dell’indagato era emersa la commissione di plurimi delitti di propaganda di idee online fondate sull’antisemitismo, il negazionismo, l’affermazione della superiorità della razza bianca, nonché l’incitamento alla violenza.
L’indagato ricorreva, così, in Cassazione, sostenendo che i like fossero una semplice espressione di gradimento e che non potessero dimostrare né l’appartenenza ad un gruppo nazifascista, né la condivisione degli scopi illeciti.
Di tutt’altro avviso sono stati, però, i giudici di legittimità, i quali hanno respinto il ricorso avverso la misura cautelare disposta dal GIP (e già confermata dal Tribunale di Roma), ritenendo i like sui social network penalmente rilevanti e le manifestazioni di adesione e le condivisioni sufficienti per far scattare il reato di istigazione all’odio razziale, specie per i messaggi discriminatori e negazionisti contro gli ebrei (descritti come «veri nemici»), contro la Shoah (definita «la menzogna più madornale che possano aver inculcato») o di irrisione delle vittime dei campi di sterminio.
Secondo la Corte di Cassazione (sentenza n. 4534 del 9 febbraio 2022), i like su post antisemiti pubblicati sui social network possono costituire un grave indizio del reato di istigazione all’odio razziale. Il “gradimento” social, infatti, non solo dimostra – se unito con altre evidenze – l’adesione al gruppo virtuale nazifascista, ma contribuisce alla maggiore diffusione di un messaggio, già di per sé idoneo a raggiungere un numero indeterminato di persone.
I social vengono, quindi, “equiparati al mezzo pubblico” per la loro capacità diffusiva, in quanto un post pubblicato sul web può raggiungere un numero indeterminato di persone, a prescindere dall’account da cui provenga.
In altri termini, secondo l’orientamento di legittimità, i like che l’indagato avrebbe disseminato sul social network attraverso profili a lui riconducibili rappresenterebbero delle interazioni di approvazione nei confronti di contenuti che, su Facebook, VKontacte e Whatsapp, puntavano a mettere in evidenza una manifestazione di pensiero antisemita e razzista.
Secondo le tesi difensive, invece, non sussistevano gli estremi per considerare tali like come prove di un reato di specie: il fatto di aver messo il like non contemplava la possibilità di un incontro fisico con gli autori materiali di post o di articoli antisemiti o razzisti. Tuttavia, la Cassazione ne ha dato una diversa valutazione, tenendo in considerazione l’aspetto riguardante l’algoritmo di Facebook. Infatti, i giudici di legittimità hanno rilevato che i social network considerano rilevanti i like grazie a un algoritmo che permette di “far arrivare” un contenuto a molte persone: «la funzionalità “newsfeed”, ossia il continuo aggiornamento delle notizie e delle attività sviluppate dai contatti di ogni singolo utente è, infatti, condizionata dal maggior numero di interazioni che riceve ogni singolo messaggio. Sono le interazioni che consentono la visibilità del messaggio ad un numero maggiore di utenti i quali, a loro volta, hanno la possibilità di rilanciarne il contenuto. L’algoritmo scelto dai social network per regolare tale sistema assegna, infatti, un valore maggiore ai post che ricevono più commenti o che sono contrassegnati dal “mi piace” o “like”».
Pertanto, il fatto che l’algoritmo di Facebook si nutra di like rappresenta un discrimine rilevante per valutare un comportamento. La diffusione di un post, infatti, è tanto più alta quanto maggiore è la portata di interazioni, commenti e condivisioni. Dunque, una persona che mette un like a un post si rende responsabile della possibilità che quel post abbia una maggiore visibilità anche presso altri utenti. Pertanto, anche la semplice interazione può essere annoverata tra gli indizi che concorrono alla costruzione dell’accusa per il reato di istigazione all’odio.
Si tratta, comunque, di vicende assai dibattute, tanto che nel caso a cui è fatto cenno, si evidenzia comunque che al soggetto indagato è stata revocata la misura cautelare e non è, infine, stato rinviato a giudizio.
Guardando al di là dei nostri confini, la prima condanna – nota – conseguente all’inserimento di un like, è stata inflitta in Svizzera nel 2017 per il reato di diffamazione: un uomo aveva messo un like su un post, pubblicato da altri su Facebook, contro il presidente di un’associazione animalista che conteneva accuse di razzismo, antisemitismo e fascismo. Il Tribunale ha ritenuto che con tale azione l’imputato avesse dapprima approvato il contenuto e indi contribuito a diffondere i commenti alla sua lista di contatti e a renderli accessibili a un numero maggiore di utenti.
La vita social è, dunque, sempre più reale e addirittura, con la dimensione del metaverso, inizia a farsi sempre più concreta e quasi tangibile.