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Divieto di discriminazione per motivi sindacali

Giurisprudenza - Anna Piovesana - 9 Marzo 2020

In base all’art. 2 d.lgs. 216/2003, il divieto di discriminazioni per motivi sindacali è funzionale alla tutela delle “convinzioni personali”. Pertanto, sono vietati atti o comportamenti idonei a realizzare una disparità di trattamento, in ragione dell’affiliazione o della partecipazione del lavoratore ad attività sindacali.

A stabilirlo è la Suprema Corte di cassazione, sent., 2 gennaio 2020, n. 1, che ha deciso il caso di 77 lavoratori, iscritti al medesimo sindacato, trasferiti in massa da uno stabilimento aziendale ad un altro. Il sindacato aveva promosso un procedimento ex art. 28 St. Lav., lamentando la discriminatorietà della condotta datoriale, motivata da un intento “punitivo” nei confronti degli iscritti ad una specifica sigla e l’antisindacalità della stessa. I giudici di merito avevano escluso la natura discriminatoria della condotta datoriale.

La Suprema Corte ha cassato la sentenza di secondo grado con rinvio della decisione alla Corte d’Appello di Napoli. La pronuncia merita menzione sotto vari profili. Anzitutto, la sentenza è interessante perché la Corte adotta un’interpretazione della nozione di “discriminazione per convinzioni personali” che fa leva sulla ratio della direttiva 2000/78/CE, di cui il d.lgs. 216/2003 costituisce attuazione.

La pronuncia va poi segnalata per un aspetto processuale. La Cassazione sottolinea che il procedimento ex art. 28 St. lav. è diverso dall’azione sindacale ex art. 5, 2° comma, d.lgs. 216/2003 (utilizzabile per far valere una discriminazione collettiva a danno di persone non direttamente individuabili). Le azioni sono entrambe collettive, ma tutelano diritti diversi. Nel caso di specie, però, la scelta del sindacato di far rientrare l’appartenenza sindacale nelle “convinzioni personali” ha avuto l’effetto di integrare le due azioni e di renderle in parte fungibili.

La sentenza va infine menzionata per quanto afferma in punto di onere della prova. La Corte ha ribadito il principio secondo cui, nel giudizio antidiscriminatorio, l’attore deve solo fornire elementi di fatto, anche di carattere statistico, idonei a far presumere l’esistenza di una discriminazione. In presenza di tali elementi, è onere del datore dimostrare che le scelte sono state effettuate secondo criteri oggettivi e non discriminatori.

 

Approfondimenti

Testo della decisione

 

 

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