BLOG

Quando il mobbing diventa reato di maltrattamenti

Giurisprudenza - Anna Piovesana - 27 Novembre 2023

 

La sentenza in commento riguarda un caso di mobbing verticale particolarmente odioso, che vede quali protagoniste due donne, l’una datrice di lavoro, l’altra sua dipendente.

Più nel dettaglio, una lavoratrice che prestava attività in un negozio di parrucchiera diveniva oggetto da parte della propria datrice di plurime condotte vessatorie, quali pensanti insulti sul proprio aspetto fisico, bestemmie proferite di fronte a clienti e colleghe, l’imposizione di lavori umilianti e gravosi e di ore di lavoro straordinario non retribuite.

Le vessazioni si acuivano allorché la datrice veniva a conoscenza che la dipendente si trovava in stato di gravidanza. La titolare del negozio intimava alla lavoratrice di non presentarsi più in salone, considerato il suo stato e si rivolgeva ad un investigatore privato affinché la seguisse e le riferisse se, al di fuori del lavoro, la stessa svolgesse attività incompatibili con la protrazione del rapporto. La datrice veniva così a conoscenza del fatto che la dipendente aveva iniziato a lavorare “in prova” presso un altro salone di parrucchiera. Procedeva, quindi, a licenziare la dipendente per giusta causa.

Il licenziamento veniva impugnato e la lavoratrice sporgeva contestualmente denuncia penale nei confronti della ex datrice, per il reato di maltrattamenti ex art. 572 c.p.

La causa sul licenziamento, radicata avanti il Giudice del lavoro, si concludeva negativamente per l’ex dipendente, in quanto il recesso veniva dichiarato legittimo.

Il contenzioso penale, invece, in primo grado aveva esito positivo. Il giudice, infatti, dopo un’accurata istruttoria, condannava la titolare del negozio per il reato di maltrattamenti. La sentenza veniva però ribaltata in appello, in quanto i giudici di secondo grado, pur avendo esaminato il medesimo materiale probatorio dei giudici di prime cure, ritenevano le dichiarazioni della persona offesa incongruenti, sia intrinsecamente che rispetto alle testimonianze assunte e, per minarne la credibilità, facevano leva sul fatto che la denuncia della lavoratrice era stata effettuata, a loro dire, con ritardo e strumentalmente solo dopo il licenziamento e sul fatto che lo stesso era stato dichiarato legittimo dal Giudice del Lavoro.

L’ex dipendente, parte civile nel procedimento penale, proponeva ricorso per cassazione avverso la pronuncia, ai soli effetti civili, ex art. 576 c.p.p.

La Corte di Cassazione, nella pronuncia in commento, evidenzia come l’assoluzione della datrice si era basata su un ragionamento logico – giuridico non corretto da parte dei giudici d’appello. Infatti, secondo consolidata giurisprudenza di legittimità, allorché venga ribaltata, come nella specie, la condanna di primo grado, in forza del medesimo compendio probatorio, la Corte di appello è tenuta a rispettare il principio secondo cui il giudice di seconde cure, che riformi in senso assolutorio la sentenza di condanna di primo grado, deve offrire una motivazione puntuale e adeguata della propria decisione, a giustificazione della difforme conclusione adottata in primo grado (in tal senso Cass. S.U. 21/12/2017, n. 14800). In sostanza, il giudice di appello deve spiegare, in modo idoneo e coerente, l’insostenibilità logica della ricostruzione e delle valutazioni effettuate nel precedente grado di merito che l’ha condotto a ribaltare la pronuncia di prime cure.

La Corte d’appello, nel caso in esame, si era discostata da tale fondamentale principio, non avendo preso in alcuna considerazione, né richiamato, la coerente e ampia ricostruzione fattuale, fornita dalla sentenza di primo grado, circa il contenuto delle condotte vessatorie, protrattesi per anni (dal 2011), riferite dalla persona offesa e consistite in umiliazioni ed insulti nei confronti della dipendente, alla presenza di clienti del negozio e colleghe di lavoro della vittima; nell’obbligo di lavorare gratuitamente oltre l’orario previsto; nell’ostacolare in tutti i modi la dipendente a restare incinta e portare a termine la gravidanza, minacciandola di licenziamento se questo fosse avvenuto.

Secondo la Cassazione, poi, l’erronea impostazione dei giudici di secondo grado risultava palese soprattutto nella parte della sentenza in cui gli stessi avevano ritenuto inattendibile la persona offesa sia perché, a loro dire, la stessa aveva presentato la denuncia in ritardo, solo dopo il licenziamento, sia per il fatto che quest’ultimo era stato dichiarato legittimo dal giudice del lavoro.

In ordine all’asserito ritardo nella presentazione della denuncia, la Corte evidenzia come l’ordinamento stabilisce i termini entro i quali un diritto può essere esercitato avanti l’autorità giudiziaria. Ne consegue che il momento in cui detti atti sono presentati non può essere, di per sé, dimostrativo dell’attendibilità o meno di chi adisce le vie legali nei confronti di qualcuno, in quanto delinea solo la finestra temporale riconosciuta per la ponderazione dell’esercizio di un diritto che, specie a fronte di un delitto abituale procedibile di ufficio, quale era quello denunciato, non prevede termini per richiederne la tutela.

In ordine al secondo profilo, la Corte, richiamando propri precedenti, ha evidenziato come “la condotta vessatoria integrante mobbing non è esclusa dalla formale legittimità delle iniziative disciplinari assunte nei confronti dei dipendenti mobbizzati” (Cass. 18/03/2009, n. 28553; Cass. 08/03/2006, n. 31413).

Precisa, infatti, la Corte che il licenziamento per giusta causa presuppone condotte gravemente inadempienti del lavoratore che ledono irrimediabilmente la fiducia del datore di lavoro e restano confinate nella relazione tra le parti private, mentre il delitto di maltrattamenti, nella sua accezione di mobbing verticale, è un illecito penale di mera condotta, perseguibile d’ufficio, che si consuma con l’abituale prevaricazione ed umiliazione commessa dal datore di lavoro nei confronti del dipendente, approfittando della condizione subordinata di questi e tale da rendere i comportamenti o le reazioni della vittima irrilevanti ai fini dell’accertamento della consumazione del delitto (tra molte, da ultimo, Cass. 18/01/2023, n. 8729; Cass. 15/09/2022, n. 9187).

Osserva peraltro la Cassazione che, nel caso di specie, il Tribunale del lavoro per dichiarare legittimo il licenziamento aveva svolto una limitata attività istruttoriadiversamente da quella penale – all’esito della quale l’ex datrice era stata condannata a pagare una somma a favore della dipendente per l’attività di lavoro straordinario svolto e non retribuito, a riprova proprio dell’attendibilità della persona offesa che aveva indicato l’obbligo, cui era sottoposta, di lavorare gratuitamente oltre l’orario come una delle modalità delle condotte maltrattanti.

Sulla scorta di queste e di ulteriori argomentazioni, la Suprema Corte ha annullato la sentenza di secondo grado limitatamente agli effetti civili e rinviato, per il riesame della vicenda, al giudice competente in grado d’appello.

La sentenza in commento si segnala da un lato, per la gravità delle condotte mobbizzanti poste in essere nei confronti della lavoratrice (tale da potersi configurare il reato di maltrattamenti), dall’altro, per l’importanza dei principi enunciati dal Supremo Collegio in ordine alla configurabilità del mobbing anche laddove il licenziamento che ne è seguito venga poi giudicato legittimo.

Una considerazione a parte va fatta in ordine al licenziamento. La sentenza del Giudice del Lavoro viene richiamata solo incidentalmente dalla Cassazione penale. Tuttavia, dalla lettura della pronuncia in commento, sembra evincersi tra le righe che la lavoratrice, all’atto del recesso, era in stato di gravidanza e si trovava in una condizione di bisogno economico, perché era l’unica a lavorare in famiglia con un figlio a carico. Sempre dall’esame della parte motiva della sentenza si evince anche che la dipendente era andata a “lavorare in prova” presso un’altra parrucchiera solo allorquando la datrice l’aveva allontanata dal salone perché incinta (non pare che la stessa si trovasse nel periodo di interdizione obbligatoria dal lavoro). Alla luce di tali circostanze fattuali, le conclusioni a cui è giunto il giudice del lavoro in ordine alla legittimità del licenziamento, destano qualche perplessità. Davvero nel caso in esame si poteva configurare quella colpa grave (prevista dall’art. 54, comma 3, d.lgs 151/2001) che necessariamente deve sussistere per poter licenziare una lavoratrice in stato di gravidanza?

Potrebbe interessarti anche