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Premi di risultato e genere: dimmi cosa vuoi e ti diro’ chi sei

Diversity & Inclusion - Michele Dalla Sega - 18 Ottobre 2023

 

Quando si parla di gender pay gap nei diversi contesti di lavoro, la nota e deteriore condizione femminile si comprende allorchè si vada oltre l’analisi di quanto prevedono, sul piano dei trattamenti economici, i contratti collettivi nazionali, dato che questi, stabilendo minimi salariali differenziati per mansione e livello d’esperienza, costituiscono in realtà una prima tutela contro le prassi discriminatorie, visto che garantiscono una copertura regolativa e protettiva uniforme alle lavoratrici e ai lavoratori dipendenti a cui si applicano.

Il discorso si deve quindi estendere ad altri fattori, in primis alla diversa partecipazione maschile e femminile al mercato del lavoro, nonché ad ulteriori strumenti attraverso i quali, nel nostro Paese, vengono regolati i rapporti di lavoro. In particolare, occorre considerare con attenzione il crescente ruolo della contrattazione di secondo livello (aziendale e territoriale), che in numerosi contesti d’impresa rappresenta una importante fonte di integrazione dei trattamenti di base già stabiliti dai contratti nazionali di lavoro.

In questa prospettiva, può essere utile portare avanti qualche riflessione sui c.d. “premi di risultato” (pdr), che consistono in quelle forme di retribuzione, ulteriori e aggiuntive rispetto ai livelli salariali stabiliti dal contratto nazionale, che sono connesse al raggiungimento di specifici obiettivi da parte delle aziende. Strumenti di questo tipo sono diffusi nel nostro sistema nazionale sin dagli anni ’50, con l’obiettivo di riconoscere ai dipendenti una parte dei benefici economici derivanti da una migliore performance aziendale. Attualmente, si sviluppano nel quadro di una articolata disciplina introdotta con la legge di stabilità del 2016, che prevede una serie di agevolazioni fiscali e contributive per i premi che siano negoziati attraverso accordi di secondo livello (aziendali o territoriali).

Sotto quali profili, quindi, queste forme di retribuzione incentivata possono porsi in contrasto con gli obiettivi di parità retributiva ? Da questo punto di vista, si individuano in particolare due questioni potenzialmente critiche.

Da una parte, occorre considerare che, oltre alla tradizionale funzione incentivante e redistributiva, i premi spesso prevedono indicatori connessi ai giorni di presenza o assenza dal lavoro, che incentivano i lavoratori più presenti e penalizzano invece, sul piano economico, coloro per i quali risulta un determinato numero di assenze nel corso del periodo di riferimento per il calcolo del premio. Si tratta di veri e propri indici di riparametrazione individuale dell’importo, che le parti negoziano al fine di ridurre l’assenteismo in azienda.

Se sul piano generale, l’Agenzia delle entrate ha dato il via libera a queste prassi, stabilendo che la differenziazione del premio tra i singoli lavoratori «non si pone in contrasto con la condizione richiesta dalla legge per l’applicazione dell’imposta sostitutiva» (circ. 5/E del 29 marzo 2018), la questione si pone in maniera diversa nel momento in cui si considerano alcuni specifici tipi di assenze, connesse a particolari situazioni di bisogno di lavoratrici e lavoratori, sulle quali i tribunali hanno iniziato a porre particolare attenzione, presentando alcuni specifici profili problematici.

Già nel 2016, il Tribunale di Torino (sent. n. 1858/2016) aveva posto un importante punto fermo sul tema, accertando la natura discriminatoria per ragioni di genere della condotta datoriale consistente nel mancato computo delle assenze dovute a gravidanza, maternità, congedi parentali e permessi per malattia dei figli, al pari della effettiva presenza in servizio, nella determinazione del premio di risultato. Negli anni, poi, l’attività dei tribunali sul tema è proseguita, a fronte di specifiche situazioni individuali legate alla fruizione di permessi e congedi stabiliti dalla legislazione vigente. Si possono citare, a titolo di esempio, la sent. n. 536/2020 del tribunale di Asti, che ha condannato un’azienda per aver decurtato il premio di risultato a un lavoratore in congedo parentale, vista la natura discriminatoria di tale disciplina in danno dei lavoratori genitori, così come la sentenza n. 658/2021 della Corte d’appello di Torino, già commentata anche in questa sede, che ha rilevato una discriminazione diretta per il mancato computo, nel calcolo del premio, delle assenze dovute a esigenze di salute dei dipendenti (ovvero dei propri familiari) disabili, al pari dell’effettivo svolgimento della prestazione lavorativa.

Per evitare di incorrere in discriminazioni, dirette e indirette, sul piano retributivo, oggi osserviamo quindi come le parti negozino accordi aziendali sui premi di risultato molto articolati, che escludono dal conteggio delle assenze una sempre più ampia tipologia di situazioni soggettive dei lavoratori, legate a permessi e congedi consentiti ai sensi della normativa vigente e dei contratti collettivi applicati.

Tuttavia, sempre sul piano degli accordi di produttività, un secondo fronte che si sta aprendo riguarda la possibilità di “welfarizzazione” del premio di risultato. Nell’ambito degli stessi accordi sui pdr, infatti, le parti possono introdurre, attraverso specifiche clausole, la possibilità per i dipendenti di convertire tutto o parte della retribuzione monetaria in beni e servizi di welfare aziendale, ricompresi nelle categorie di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 51 del TUIR.

Si tratta di una possibilità agevolata in maniera ulteriore dalla legge e sempre più diffusa, come evidenziano i report periodici del Ministero del Lavoro sui premi di produttività. L’ultimo monitoraggio, aggiornato al 15 settembre 2023, segnalava che su 14.630 accordi (aziendali e territoriali) attivi, erano ben 8.659 (pari al 59% del totale) quelli che prevedevano, contestualmente, la possibilità di welfarizzazione della parte monetaria. Tendenze simili sono state presentate anche nell’ultimo Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia, in cui si è evidenziato, in aggiunta, come sempre più aziende incentivino ulteriormente tale prassi (alla luce della maggiore convenienza sul piano fiscale e contributivo), assegnando quote aggiuntive di welfare in caso di conversione totale o parziale del premio.

Sulle possibili criticità legate a queste prassi, ha posto particolare attenzione il Rapporto INAPP “Lavoro e formazione: l’Italia di fronte alle sfide del futuro”, evidenziando come, nell’ambito delle misure previste dai piani di welfare aziendale legati ai premi, ampio spazio è occupato da quelle componenti, quali i servizi di cura, assistenza e sostegno familiare, nonché i bonus e le facilitazioni alla gestione della casa e degli acquisti, che attengono all’esercizio di funzioni svolte ordinariamente in prevalenza dalle donne. Una diffusa conversione dei premi da parte delle lavoratrici verso tali servizi, al posto dell’erogazione in forma monetaria, rischierebbe quindi, secondo questa lettura, di rafforzare la specializzazione femminile nel lavoro di cura e il gender pay gap, caricando ancora una volta sulle donne che lavorano il peso di esigenze sociali che dovrebbero invece essere sostenute con soluzioni pubbliche strutturali o quantomeno suddivise tra i generi.

Le prime indagini che hanno approfondito le scelte dei beni e servizi di welfare da parte di lavoratrici e lavoratori, per quanto basate su metodologie diverse e svolte su campioni limitati, evidenziano come queste prime “percezioni” non risultino del tutto infondate.

Già nel 2010, l’Indagine sulle percezioni dei lavoratori dipendenti in tema di benefit a cura di Towers Watson e GFK Eurisko evidenziava come le donne risultassero notevolmente più orientate verso i servizi a carattere familiare (asili nido, campi estivi, borse di studio per i figli) rispetto agli uomini, tendenzialmente disinteressati a questi servizi a discapito di misure di natura diversa, quali l’auto aziendale e gli abbonamenti ai mezzi pubblici. Uno scenario che, al giorno d’oggi, non sembra cambiato, visto che l’ultimo rapporto a cura di Edenred sul welfare aziendale in Italia segnala come i servizi di welfare tradizionale a utilità sociale presentano un maggiore ricorso da parte della componente femminile della forza lavoro, con un gap particolarmente marcato sulle spese connesse all’istruzione, mentre gli uomini tendono a preferire i c.d. fringe benefits, ossia prestazioni che, seppur ricomprese nei piani di welfare, per propria natura non sono vincolate al perseguimento di particolari finalità sociali (si pensi ad esempio ai buoni acquisto o ai buoni benzina).

Queste prime tendenze presentate invitano quindi a monitorare, nei prossimi anni, lo sviluppo delle pratiche negoziali sui premi di produttività e le relative opzioni connesse all’erogazione dei beni e servizi di welfare aziendale. Si tratta di prassi che stanno cambiando, in ottica innovativa, le attuali relazioni di lavoro, a fronte delle profonde trasformazioni in atto nei diversi contesti produttivi. Tuttavia, vista la loro incidenza sulle forme di retribuzione di lavoratrici e lavoratori, occorre prestare particolare attenzione agli effetti (diretti e indiretti) che possono comportare sul principio di parità salariale.

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