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Nullo il licenziamento per assenza ingiustificata della lavoratrice madre di un figlio minore di un anno

Giurisprudenza - Claudia Carchio - 23 Novembre 2021

 

Il Giudice del Lavoro del Tribunale di Brescia, accogliendo la domanda di una lavoratrice madre licenziata per assenza ingiustificata prima del compimento di un anno di età della propria figlia, ha dichiarato nullo il recesso datoriale fornendo  un’interpretazione restrittiva del concetto di colpa grave che costituisce eccezione al divieto di licenziamento ex art. 54, c. 3, d.lgs. n. 151/2001.

La citata norma del d.lgs. n. 151/2001 (testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità) accorda alle lavoratrici madri una tutela particolarmente forte, che ne vieta il licenziamento per tutto il periodo intercorrente tra l’inizio della gravidanza e il compimento di un anno di età del figlio, salvo che ricorra un’ipotesi di: colpa grave della lavoratrice costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro, cessazione dell’attività aziendale cui la lavoratrice è addetta, ultimazione della prestazione per la quale la stessa è stata assunta o risoluzione del rapporto di lavoro per scadenza del termine, ovvero ancora, esito negativo della prova.

Nel caso di specie, la lavoratrice, madre di una figlia nata il 26.11.2019, è stata licenziata in data 2.10.2020, in quanto risultata assente ingiustificata per oltre cinque giorni consecutivi. L’ex datrice di lavoro, contestando alla dipendente la violazione delle disposizioni del CCNL applicato, ha ritenuto inoperante il divieto di licenziamento a tutela delle lavoratrici madri e irrogato, di conseguenza, un licenziamento per giusta causa.

Il Tribunale adito ha, però, dichiarato nullo ex art. 18, c. 1, l. n. 300/1970, il recesso datoriale in considerazione del carattere peculiare ed autonomo dei casi di colpa grave di cui all’art. 54, c. 3, d.lgs. n. 151/2001, ordinando, per l’effetto, l’immediata reintegra della lavoratrice nel posto di lavoro e nelle mansioni dalla stessa in precedenza disimpegnate, nonché condannando la datrice di lavoro al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dovuti dalla data del licenziamento sino all’effettiva reintegrazione.

Conformemente ai precedenti giurisprudenziali in materia, il Giudice di merito ha, da un lato, sottolineato come incomba sul datore di lavoro l’onere di provare la sussistenza di una delle ipotesi derogatorie al generale divieto di licenziamento delle lavoratrici madri (Cass. n. 11975/2016) e, dall’altro lato, ha chiarito il particolare significato che deve essere attribuito alla nozione di colpa grave grave che legittima l’espulsione delle medesime lavoratrici. Tale ipotesi, infatti, non può ritenersi coincidente con quella della giusta causa prevista dall’art. 2119 c.c. (Cass. n. 6300/88, Cass. n. 1973/93, Cass. n. 4435/2004 ecc.), ma è invece rappresentata da una colpa, più specifica e appunto più grave, che la distingue dalla diversa colpa in senso lato che connota qualsiasi inadempimento del prestatore sanzionabile con il licenziamento (Cass. n. 19912/2011).

In altri termini, affinché sia integrata la particolare forma di colpa grave prevista dall’art. 54, T.U. a tutela della genitorialità, non è sufficiente l’esistenza di una delle fattispecie che in linea generale o a norma del CCNL consentono il licenziamento, richiedendosi invece una riprovevolezza intrinseca o una colpa morale in capo alla lavoratrice madre, tale da superare la considerazione in cui devono essere tenute le condizioni psico-fisiche della donna gestante o puerpera, la quale si trova a vivere una rivoluzione dei propri ritmi di vita con ineliminabili effetti nell’immediata vita di relazione, compresa l’attività lavorativa (Trib. Roma 19.3.2019).

La normativa primaria ha in tal senso limitato l’ambito di operatività delle eccezioni al divieto di licenziamento di cui all’art. 54, d.lgs. n. 151/2001, non soltanto contemplando un catalogo tassativo dei casi in cui il recesso datoriale deve ritenersi ammesso, ma prevedendo anche che l’estromissione per ragioni disciplinari possa essere intimata solamente ove ricorra una fattispecie autonoma e connotata da un maggiore disvalore rispetto alle ipotesi di giusta causa di cui all’art. 2119 c.c. o a quelle enumerate dalla contrattazione collettiva.

La decisione esclude quindi che la mera riconducibilità della condotta della lavoratrice madre alla previsione del CCNL ovvero una generica e ambivalente valutazione di gravità circa la violazione degli obblighi contrattuali possano automaticamente consentire di invocare la deroga di cui all’art. 54, c. 3, d.lgs. n. 151/2001, essendo, invece, necessario a tal fine effettuare riferimenti puntuali agli estremi di una colpa grave, ovvero illustrare e provare le ragioni secondo cui sarebbe inoperante il divieto legale di licenziamento.

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