Mi piace (ancora?) lavorare
di Daniele Gasparini, Psicologo del lavoro e Consulente aziendale
Sono passati quasi 20 anni (18 per l’esattezza) da quando giravo l’Italia in lungo e in largo come docente nei corsi di formazione sul tema del mobbing: insieme a colleghi affrontavamo quello che, in quel periodo, appariva un fenomeno complesso, per certi versi nuovo, e che riuniva dinamiche relazionali, organizzazione aziendale e salute (e dignità) delle persone che lavorano.
Un periodo intenso, dove la parte di studio e “didattica” era costellata di incontri e racconti di situazioni di disagio professionale e personale, che descrivevano un mondo di sofferenza, paura e voglia di riscatto, con quel nodo in gola che ha il valore della dignità. In quel contesto, avevo l’impressione che, nei racconti di chi percepiva di subire ingiustizia, ci fosse sempre il desiderio di resistere all’ingiustizia, per preservare il benessere, la dignità e la salute mentale.
Era il periodo del film “Mi piace lavorare”, dove Nicoletta Braschi interpretava il ruolo di una impiegata oggetto di continui attacchi e vessazioni perpetrate dai colleghi, dai responsabili finanche dal datore di lavoro.
Ho raccolto storie di soprusi professionali e personali, di demansionamenti (in particolar modo, al rientro dalla maternità), di riunioni convocate in orari tali da renderne impossibile la partecipazione, di uffici che diventavano stanze senza strumenti, di gruppi “senza qualcuno” (quello che, oggi, succede nel mondo virtuale delle chat di Whatsapp in cui non si viene inseriti, allora come adesso, accadeva con la partecipazione a gruppi più o meno formali). Storie di diffusione di false notizie sullo stato di salute dei lavoratori, di sarcasmo, di apprezzamenti non graditi, di umiliazioni pubbliche o di screditamento e calunnia, nonché di famiglie messe in crisi nella difficoltà di gestire e vivere il disagio di familiari vittime di azioni mobbizzanti.
E ancora, storie di responsabili che si erano dimessi a seguito di azioni messe in atto dai propri collaboratori, volte a destituirli e/o a renderne inefficace l’operato. Sono proprio questi ultimi i casi di mobbing verticale (dal basso) in cui una concomitanza di fattori quali collaboratori resistenti al cambiamento e responsabili spesso incapaci di assecondare le regole non scritte del quotidiano vivere le relazioni e le logiche di potere, avevano come conseguenza la messa in atto di azioni ostacolanti da parte dei collaboratori e la rinuncia al ruolo da parte dei responsabili.
E poi ancora, svilimento dell’operato, apprezzamenti non graditi, umiliazioni pubbliche o screditamento e calunnia, ecc…, atti di violenza che fanno tornare alla mente la frase di Isaac Asimov “La violenza è l’ultimo rifugio degli incapaci”
In un processo di continuo e progressivo isolamento nelle relazioni di gruppo, in cui ogni attore delle relazioni vede e osserva, ma, per svariati motivi (tra i quali la pressione della cultura organizzativa dominante e interessi personali) non agisce, questo non agire determina un isolamento che diviene esclusione. Sicché, quella tacita indifferenza diventa consenso.
Come anticipato, erano i primi anni 2000 e il fenomeno del mobbing aveva fatto capolino in Italia tra gli addetti ai lavori da meno di un decennio, grazie agli studi dello psicologo del lavoro Herald Hege sin dal 1996[1]. Molti anni sonno passati, ma soprattutto molte esperienze, studi e letture si sono susseguite e, come ogni forma di cultura, non sono elementi che si sommano, ma elementi che si complessificano, poiché intrecciandosi tra loro e a quanto fino ad allora accumulato, portano all’emergenza di nuovo sapere e nuova capacità di lettura della realtà.
Tra queste esperienze, quella di psicologo negli sportelli di ascolto aziendale mi ha permesso di comprendere come le azioni ritenuti mobbizzanti, spesso, siano riconducibili a conflittualità (pur grave) all’interno dell’ambiente di lavoro, non sempre riconducibili all’intento (rectius, dolo specifico) di isolare ed escludere la vittima, così come non sempre identificabili nel carattere della sistematicità delle azioni medesime. Tuttavia, lo stato di disagio, malessere e lesione della dignità personale e professionale traspariva dai vissuti e, quindi, dai racconti delle persone incontrate[2].
Le sentenze dei tribunali, della Corte di Cassazione, la definizione di strumenti di indagine sempre più accurati e norme sempre più precise, hanno permesso di identificare con maggior accuratezza, i modelli descrittivi del mobbing, gli aspetti peritali, il riconoscimento delle conseguenze sul piano della salute del lavoratore, e la relazione di questi con le responsabilità dei diversi attori, nonché del contesto in cui tali eventi si realizzano, lasciando aperto il dibattito e il confronto, ma delimitandone i confini.
A mio avviso, la sfida (culturale, organizzativa e normativa) è, oggi, conciliare i vissuti individuali (diversi dai vissuti dei gruppi), con le scelte organizzative e il substrato culturale su cui si appoggiano, con un contesto normativo attento alla prevenzione dei rischi sul luogo di lavoro e alla tutela della dignità e dei lavoratori e alla rimozione degli ostacoli alla piena realizzazione della persona.
Le ipotesi di disagio, molestie, vessazioni e ogni altra condizione di malessere individuale devono, quindi, essere lette quale possibile “sintomo del malfunzionamento del gruppo e/o dell’intera organizzazione” poiché da quell’evidenza è possibile agire tempestivamente per risolverne le cause, supportare la persona e prevenire ulteriori situazioni critiche.
Al di là degli specifici obblighi di legge, in termini di prevenzione e del profilo di responsabilità civile e penale, risulta altresì fondamentale interrogarsi sulla cultura organizzativa all’interno della quale tali azioni o condizioni trovano più o meno tacita approvazione o ne rappresentano, semplicemente, la pratica.