Madri per aria: l’indennità di maternità delle assistenti di volo spetta per intero
Si sta consolidando presso i giudici del lavoro l’orientamento per cui la corresponsione di una indennità di maternità inferiore alla misura prevista per legge integra gli estremi di un trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza e di maternità, vietato dall’art. 25, comma 2 bis, del Codice delle pari opportunità.
Di seguito, in breve, i fatti. Con il procedimento speciale di cui all’art. 38 d.lgs. 198 del 2006 (c.d. Codice delle pari opportunità), alcune madri impiegate come assistenti di volo si sono rivolte all’autorità giudiziaria, al fine di far accertare il comportamento discriminatorio dell’ente previdenziale per avere percepito, nel corso del periodo di congedo di maternità, una indennità di ammontare inferiore rispetto a quello previsto dalla normativa vigente. Questo sarebbe accaduto perché l’ente, nell’interpretare le disposizioni degli artt. 22 e 23 del d.lgs. 151 del 2001 (cd. T.U. sulla maternità e paternità), avrebbe computato l’indennità di volo solo nella misura solo del 50%, invece che per l’intero.
L’ente erogatore aveva agito così – sulla scorta anche delle direttive offerte con un interpello dal Ministero del Lavoro del 2008 – in ragione del fatto che ai fini del computo dell’indennità di maternità, come prescritto dall’art. 22 del richiamato T.U., la base imponibile sarebbe la retribuzione costituita dagli stessi elementi che vengono considerati ai fini della determinazione delle prestazioni dell’assicurazione obbligatoria per le indennità di malattia, ove la voce indennità di volo viene computata al 50%.
Ma i giudici investiti della vicenda la pensano diversamente, basandosi sull’interpretazione data dalla Suprema Corte di Cassazione con sentenza n. 11414 del 2018, per cui il trattamento economico spettante alla lavoratrice va determinato nel suo ammontare con esclusivo riferimento alla retribuzione-parametro di cui all’art. 23 del T.U. sulla maternità e paternità <<mentre il rinvio dell’art. 22 dello stesso decreto ai ‘criteri previsti per l’erogazione delle prestazioni dell’assicurazione obbligatoria contro le malattie’ va limitato ai soli istituti che disciplinano tale indennità, quali ad esempio quelli in tema di domanda amministrativa o regime prescrizionale>>.
Seguendo anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE (sentenze Dekker C-177/1988, Tele Danmark C-109/00 e Marìa Gomez C-342/01), e ricordando che l’art. 25, comma 2 bis, Codice delle pari opportunità individua come “discriminazione, ai sensi del presente titolo, ogni trattamento meno favorevole in ragione dello stato di gravidanza, nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti”, alcune corti di merito hanno quindi condannato l’ente per discriminazione, imponendo la rimozione degli effetti, costituiti dal pregiudizio economico subito dalle lavoratrici (decreto del Tribunale di Civitavecchia, 20 giugno 2020; decreto del Tribunale di Bologna, 4 maggio 2020).
Di particolare interesse è il fatto che, a parere dei richiamati precedenti, il diritto, nei casi risalenti nel tempo, non si fosse prescritto (né fosse intervenuta decadenza dall’azione), perché la somma di denaro domandata dalle lavoratrici non consiste nell’erogazione di una obbligazione previdenziale solo parzialmente riconosciuta (nella specie, soggetta a termini di prescrizione e decadenza annuali), bensì nella rimozione degli effetti pregiudizievoli di una condotta discriminatoria. Questo è un particolare rilevante perché i giudici, malgrado non abbiano escluso che l’azione antidiscriminatoria possa essere soggetta essa stessa a termini prescrizionali o decadenziali, hanno ritenuto che non si applicassero quelli riferiti ad altre e (diverse) azioni.
Su quest’ultimo aspetto l’orientamento giurisprudenziale non è però unanime. Il Tribunale di Udine (sentenza del 4 novembre 2020) ha infatti rigettato la domanda per prescrizione/decadenza del diritto fatto valere. A parere del tribunale friulano, ciò su cui occorre porre l’attenzione è la “reale natura del diritto fatto valere” e dunque il “bene della vita che si mira ad ottenere con la pronuncia giudiziale” il quale, benché sotto forma di “rimozione degli effetti” è nella sostanza una specifica prestazione previdenziale ovvero l’integrazione di quanto parzialmente liquidato dall’ente competente, con la conseguenza che, benché l’azione proposta dalle ricorrenti sia ricondotta nell’alveo della tutela rafforzata del diritto antidiscriminatorio, essa non “sia svincolata dai termini decadenziali e prescrizionali che regolano l’esercizio in via ordinaria del diritto cui infine si aspira”.
Insomma, la vicenda è tutt’altro che pacificamente definita e nei prossimi anni andrà seguita sia nel merito, sia per l’importantissimo principio di diritto sotteso ad esso, che mette in gioco forma e sostanza dell’azione per la rimozione delle discriminazioni.