L’imposizione del turno pomeridiano al rientro dalla maternità è una discriminazione di genere
Un’operatrice socio sanitaria, dipendente di una casa di riposo, a far data dal 2009, aveva sempre lavorato ruotando su tre turnazioni (mattutina, pomeridiana, serale), ma dopo il rientro al lavoro dalla quarta gravidanza, le veniva comunicato che avrebbe lavorato solo nel turno pomeridiano. La OSS aveva chiesto più volte la modifica dell’orario di lavoro per riuscire a gestire i propri figli, ma la richiesta non era stata accolta. Pertanto, ha adito il Giudice del lavoro chiedendo che, accertata la natura discriminatoria del comportamento datoriale, la casa di riposo fosse condannata ad assegnarle turni di lavoro analoghi alle altre OOSS, oltre al risarcimento del danno.
Il Tribunale di Pesaro, decreto, 7 gennaio 2020, ha accolto il ricorso e, dichiarata la natura discriminatoria del comportamento della casa di riposo, l’ha condannata a inserire la OSS nel turno mattutino.
Il decreto è interessante perché definisce un procedimento avviato con lo speciale rito sommario ex art. 38 d.lgs 198/2006, previsto a tutela delle discriminazioni di genere. Il Giudice, coerentemente con quanto previsto dall’art. 40 del predetto decreto, in tema di regime probatorio agevolato, ha ritenuto che la lavoratrice avesse assolto al proprio onere probatorio nella fase istruttoria. I testimoni, infatti, avevano confermato che la ricorrente era l’unica a lavorare solo nel turno pomeridiano e che la scelta di non adibirla al turno mattutino era dovuta alle frequenti assenze della lavoratrice per la fruizione del congedo e dei permessi per maternità.
In merito alle conseguenze dell’accoglimento del ricorso, va segnalato che il Giudice, oltre a ordinare la cd. rimozione del comportamento discriminatorio, ha accordato alla lavoratrice anche un risarcimento (seppur modesto) del danno. Secondo il Tribunale, benché la lavoratrice non avesse provato di aver subito un pregiudizio (non patrimoniale) direttamente connesso al turno di lavoro non svolto, era comunque riscontrabile un pregiudizio indiretto, costituito dal fatto che la condotta datoriale aveva limitato molto la presenza della madre in famiglia e particolarmente con i figli. Pertanto, ha ritenuto che tale pregiudizio meritasse ristoro, quantificando il danno in un terzo della retribuzione annua della lavoratrice.
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