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L’emersione della diversità nel sistema complesso dell’azienda

Attualità - Daniele Gasparini - 15 Dicembre 2021

Nel considerare l’organizzazione aziendale, possiamo descriverla come un sistema complesso, ossia la risultante dell’interazione di valori, credenze, prassi. A questa prima varietà di elementi si aggiunge il fatto che si tratta di un insieme di essere umani in relazione tra loro. Non è indifferente ai fini dell’analisi adottare la logica del sistema, perché in tal modo anche per l’azienda possiamo affermare che si tratta di una realtà sociale che “si conserva e muta indipendentemente dai destini particolari dei suoi membri individuali” (De Toni F. A., Comello L., Ioan L., Auto-Organizzazioni, 2001, 139).

In questo sistema, si realizza l’incontro di idee e di persone. Si crea, in altre parole, la premessa essenziale per far emergere nuove idee e far esprimere le potenzialità di ognuno, come dall’incontro di atomi emergono proprietà collettive che non appartengono a ciascuno di essi e che si riverberano sul sistema nel suo complesso.

Una delle sfide delle aziende è appunto essere incubatori di idee e facilitatori della loro realizzazione. Sia che si consideri il momento genetico, sia che si consideri il momento della diffusione, è fondamentale agevolare l’incontro delle diversità come premessa per una possibile innovazione (tanto in relazione a un prodotto, tanto in relazione a un processo). Tuttavia, un tale risultato è difficilmente conseguibile senza una cultura organizzativa adeguata, in grado cioè di stimolare e gestire la specificità di ciascuno.

Come ha affermato K. Lewin (1948), in I conflitti sociali: sono l’interazione e il tipo di interdipendenza a definire un gruppo, non inteso quale mera somma degli individui che lo compongono, ma quale risultante degli scambi che in esso avvengono, soggetta alle forze (esogene ed endogene) che in esso si sviluppano.

Tutto ciò non avviene per caso. È il frutto di una strategia aziendale che deve essere definita, pragmatica, conosciuta e diffusa. Senza di essa è impossibile l’incontro virtuoso delle specificità che caratterizzano i suoi componenti. Ed è piuttosto intuitivo capirne la ragione.

Una strategia aziendale chiara permette a ciascuno di muoversi e agire con sicurezza a prescindere dal posto occupato nella struttura organizzativa. E ciò è tanto più essenziale quanto più il contesto in cui si fa impresa è dinamico, flessibile, veloce (Diversity management come motore della vita aziendale).

Nella mia visione, a prescindere dalla funzione organizzativa (di line o di staff) ricoperta, ogni persona che agisce nel sistema-azienda è attore delle politiche di diversity management, poiché rappresenta l’unità minima che governa l’agire quotidiano, anche – appunto – in termini di inclusione delle diversità. Ciò nulla toglie alla rilevanza della funzione di chi agisce il coordinamento di tali politiche, dal momento che è imprescindibile il compito di facilitatore di tali processi: in primis, quello di riconoscere e valorizzare conoscenze e competenze individuali o di gruppo, ossia la professionalità delle persone quale “patrimonio di cono­scenze tecniche, di capacità pratiche, di abilità operative specifiche, di esperienze, attitudini e idoneità” (Brollo M., La mobilità interna del lavoratore. Mutamento di mansioni e trasferimento, Giuffrè, 1997, 138; Corte cost., 6 aprile 2004, n. 113) in una logica promozionale della “dignità professionale” di ogni persona (Brollo M., Bilotta F., Zilli A., Lessico delle dignità, Forum ed., 2021). Sono queste – a mio avviso – le premesse per creare un lavoro “professionalmente dignitoso” (8° Obiettivo Agenda ONU 2030) quale “realizzazione o valorizzazione di sé” (ibidem).

Per fare questo, perché la realizzazione e valorizzazione di sé sia concreta, è necessario che la competenza sia agita, ovvero sia “una abilità o caratteristica individuale che viene attivata da un lavoratore insieme con risorse personali, organizzative o ambientali, per far fronte con successo a specifiche situazioni di lavoro” (Capaldo G., Landoli L., Zollo G., A situationalist perspective to Competencies management, in Human Resource Management Journal, vol. 45, 2006, 434). Per fare la differenza, quindi, è necessario che la competenza “entri in azione” cioè messa in pratica anche al fine di generare nuovi saperi e ulteriori competenze, soprattutto in combinazione con altre competenze. In questo – anche in questo – sta la complessità delle organizzazioni, nella molteplicità di conoscenze e competenze messe in rete e capaci di generare dal basso nuovi scenari. Il confronto, lo scambio, la realizzazione di progettualità condivise, la partecipazione attiva al cambiamento, e soprattutto la possibilità e l’opportunità di lavoro in team rappresentano strumenti essenziali alla messa in pratica delle competenze. È l’alveo ideale in cui si realizza l’inclusione che passa attraverso il riconoscimento, la manifestazione e la messa in gioco delle proprie caratteristiche, all’interno di una rete di relazioni che ne sa sostenere e stimolare la piena manifestazione e connessione stimolando la capacità di stare nell’incertezza, nel non giudizio e nel sapersi mettere in discussione attraverso il confronto.

La vera posta in gioco per le organizzazioni complesse è, dunque, rimuovere gli ostacoli che impediscono ai singoli e ai gruppi di partecipare a pieno titolo alla vita aziendale nelle sue diverse declinazioni, ossia in ambito produttivo, relazionale e sociale, e così dispiegare nel modo più ampio possibile la propria personalità e professionalità. A ben vedere, si tratta dello stesso disegno trasformativo previsto su scala più larga dall’art. 3 Cost.: la realizzazione di un contesto relazione e sociale inclusivo.

 

 

 

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