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Lavorare da casa: obbligo, diritto e infine privilegio. Da tassare?

Attualità - Anna Zilli - 17 Novembre 2020

 

La pandemia Covid-19 ha portato con sé il più grande e inaspettato esperimento mondiale di lavoro da remoto, nella forma del lavoro da casa (WFH: work from home). Mentre il mondo sta affrontando la seconda ondata dell’epidemia, il centro studi di Deutsche Bank irrompe con una ricerca intitolata  What we must do to rebuild che sta facendo molto discutere.

Lo studio propone varie misure per ripartire e, tra esse, segnaliamo la WFH tax, con cui si  immagina di applicare una tassa del 5% per ogni giornata lavorata in smart working da casa.

I lavoratori da remoto, secondo lo studio, godono di una posizione privilegiata perchè, oltre ad aver conservato lavoro e reddito, si trovano anche al riparo dalla pandemia, esentati dai pericoli derivanti dal contatto fisico con colleghi e utenti, e occupati in organizzazioni che hanno potuto reggere l’urto della crisi in corso e in arrivo.

Lo scopo della tassa è quindi solidaristico e non a vantaggio delle imprese (che invece già in Italia avevano già pensato di eliminare il buono pasto per i lavoratori operativi da casa): l’obiettivo è, infatti, quello di trovare risorse pubbliche per aiutare le vittime economiche dell’epidemia. Opportunamente, nel rapporto si rammenta come i governi abbiano sempre utilizzato la leva fiscale per far fronte alle catastrofi e proprio in questo senso si propone che i sistemi fiscali si adeguino alla nuova realtà.

Si tratta di sostenere quella massa di persone che sono state improvvisamente colpite da forze al di fuori del loro controllo. Come si nota nella ricerca, sono molte le persone che dovranno accettare lavori poco pagati mentre si riqualificano o mentre cercano di capire quale possa essere il loro nuovo cammino di vita vita. Inoltre, la pandemia ha incrementato enormemente il numero dei  lavoratori essenziali che si assumono il rischio Covid a fronte di stipendi bassi o addirittura (quasi) solo per cottimo, come la vicenda dei rider mostra molto bene.

L’idea di introdurre una tassa sulle giornate di lavoro da casa nasce dall’idea che lo smart worker benefici di risparmi finanziari su spese per viaggi, pranzo, vestiti e pulizia e vantaggi intangibili, come la sicurezza, la comodità e la flessibilità del lavoro, non scalfiti dallo stress determinato dalla convivenza con familiari e bambini: non a caso, la maggior parte di coloro che lavora in smart working desidera continuare a lavorare a distanza, almeno a tempo parziale, dopo che la pandemia sarà finita.

Secondo la tesi di Deutsche Bank, la tassa genererebbe sofferenze modeste e grandi vantaggi. Per esempio, in Germania, dove lo stipendio medio per chi lavora in smart working è di 40mila euro, la tassa equivarrebbe a poco più di 7,50 euro  al giorno ma permetterebbe di 20 miliardi di euro l’anno. A vantaggio di chi? Dei più deboli economicamente, più esposti e più colpiti dalla pandemia. 

Sebbene la proposta sia stata ripresa in termini assai polemici dai più, vale invece la pena di esplorarla e di accostarla alla proposta di tagliare gli stipendi dei dipendenti pubblici, ritenuti privilegiati spettatori della pandemia “altrui”, in virtù della situazione di relativa tranquillità, per il momento, di cui possono godere.

Un contributo da parte di tutti gli smart worker, pubblici e privati, che grazie al lavoro ‘al fronte’ di commesse e commessi, fattorini et similia possono ‘guardare il mondo da un oblò’ non sembra poi un’idea così lontana da un modello di società solidale, in cui ci si prende cura degli altri, anche attraverso una distribuzione della leva fiscale diversa da quella attuale.

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