BLOG

La prevalenza del patronimico è una discriminazione istituzionale

Giurisprudenza - Pina Rifiorati - 23 Dicembre 2021

L’automatica attribuzione del patronimico ai figli nati nel matrimonio e fuori dal matrimonio, di cui agli artt. 262 comma 1 e 299 comma 3 cc., è una discriminazione codificata dal nostro ordinamento a danno delle madri, espressione di retaggi culturali che si perpetuano nel nostro Paese e che trovano radici nella concezione romanistica della famiglia basata sulla potestà maritale.

Come noto, la Corte Costituzionale, con pronunce che si sono susseguite nel tempo (tra cui si ricorda le più significative: Corte Cost. n. 61/2006, Corte Cost. n. 218/2016, e da ultimo l’ordinanza Corte Cost. 18/2021) ha provveduto da un lato a limitare il portato discriminatorio delle citate disposizioni favorendone un’interpretazione costituzionalmente orientata, dall’altro ha invitato il legislatore (finora inutilmente) a intervenire per rimuovere tali norme che ancora oggi discriminano le donne e le madri a favore dei padri, in spregio non solo al principio di parità e pari opportunità di cui agli artt. 3, comma 1 e 2 e 51 Cost, ma anche a quello di parità fra genitori, sancita dalla riforma del diritto di famiglia del 1975 e più, di recente, dalla novella del 2013 che, rivisitando la materia della filiazione, ha parificato tutti gli status connessi alla filiazione (pur mantenendo una differente modalità di tutela processuale fra prole di genitori sposati e non sposati).

La normativa in esame è di ulteriore rilevanza per i suoi effetti in tutte le ipotesi in cui si procede al riconoscimento del figlio in momenti successivi alla sua nascita, per esempio con azione promossa dal padre biologico.

La citata sentenza della Corte n. 286/2016 ha dichiarato l’incostituzionalità degli artt. 262 comma 1 (figli nati fuori dal matrimonio) e 299 comma 3 (figli di genitori coniugati) nella parte in cui non derogano all’automatismo ivi previsto, neppure con il consenso dei genitori. A seguito di tale pronuncia, infatti, i genitori possono accordarsi per attribuire il cognome materno che, tuttavia, può solo affiancare quello paterno senza mai precederlo né, tanto meno, escluderlo.

E’ necessario focalizzare l’attenzione non solo sulla violazione del principio di eguaglianza dei genitori, ma anche sul diritto fondamentale all’identità del bambino che dovrebbe poter ricevere i segni distintivi e identificativi di entrambi i genitori, a testimonianza del rapporto che lo lega ai propri ascendenti diretti, quale esigenza personale e sociale riconducibile alla tutela della persona ed al rispetto della sua personalità (art. 2 Cost.).

Tant’è che ogni qualvolta si agisce in giudizio per decidere sull’attribuzione del cognome (a causa del disaccordo dei genitori) o sulla sua modifica – per cause di disconoscimento/riconoscimento della paternità o di impugnazione per difetto veridicità (artt. 269 c.c., 244 c.c., 263 c.c.) –  viene rimessa al giudice non tanto e non solo la valutazione sulla veridicità dello status filiationis, ma anche sull’interesse della persona minorenne a quell’attribuzione e a quel cambiamento.

In tal senso, opera il principio che, come noto, informa la tutela dei diritti delle persone minorenni, ossia il superiore interesse del bambino. Sebbene questa materia sia da sempre informata al favor veritatis, è necessario avere riguardo innanzitutto al best interest del bambino.

Tale necessità è stata posta in evidenza dalla giurisprudenza della Suprema Corte (per tutte, Cass. n. 17139/ 2017 che, in un caso di riconoscimento successivo alla nascita da parte del padre ha sancito il principio per cui la scelta del giudice è discrezionale e non sono ammessi automatismi; il giudizio non può essere condizionato né dal favor per il patronimico, né per un prevalente rilievo della prima attribuzione), stimolata dai giudici di merito. In particolare, si ricorda la decisione del Tribunale Monza 17.02.2010 che costituisce una pronuncia “apripista” per aver sancito che al disconoscimento della paternità non segue automaticamente la variazione del cognome del figlio.

In questo quadro normativo e giurisprudenziale si inserisce la sentenza in commento, la quale pone in evidenza come le norme e i principi possono essere disapplicati dal giudice ogniqualvolta il suo convincimento si basa su stereotipi e pregiudizi che condizionano le decisioni fino a determinarle.

Con sentenza di data 26.01.2021, la Corte d’appello di Trieste (relatrice dott.ssa Carla Lendaro), ha riformato una sentenza del Tribunale di Udine che, in una causa di riconoscimento del figlio naturale, pur a fronte della specifica richiesta della madre affinché il cognome materno venisse anteposto a quello del padre riconoscendo, del tutto inopinatamente e con argomentazione e linguaggio stereotipato, aveva deciso di “scalare” il cognome materno per far posto a quello paterno.

Il Tribunale, nel tentativo di giustificare il pregiudizio per cui il patronimico anteposto è più idoneo a mantenere l’identità della persona, aveva teorizzato che l’identità della bambina – in età prescolare – era in corso di formazione non avendo ancora la stessa fatto ingresso alla scuola dell’obbligo, momento in cui – ad avviso del Tribunale – inizia la trama dei rapporti sociali e personali.

Con riguardo, poi, alla valutazione del preminente interesse della persona minorenne, aveva ritenuto che esso corrisponde alla prevalenza del patronimico in quanto la semplice aggiunta del cognome paterno, posposto a quello materno, avrebbe portato la bambina a vivere situazioni di disagio con i compagni per il fatto di “trovarsi a rispondere ancora troppo piccola senza la dovuta cognizione alla naturale curiosità dei compagni per quel cognome materno anteposto a quello paterno turbando la sua serenità di bambina.”.

Per il giudice di primo grado, dunque, la circostanza che fin dalla nascita la bimba fosse conosciuta e si identificasse solo con il cognome materno è un dato del tutto secondario rispetto alla consuetudine nel nostro Paese di essere identificati con il patronimico.

La Corte d’Appello – che definisce apodittica la teoria del Giudice di Udine – ha ritenuto invece presupposto inoppugnabile che l’identità si acquisisce alla nascita quale diritto fondamentale, giudicando inspiegabile e privo di fondamento che il matronimico come primo cognome possa creare disagio alla bambina fra i compagni e ritenendo tale opzione del tutto inverosimile e piuttosto “(…) frutto di un pensiero adulto retaggio di un modo ancestrale, arcaico e patriarcale non rispettoso della piena parità fra i generi riconosciuta dalla Costituzione …da cui traspare la persistenza nel giudicante di vecchi stereotipi e pre-giudizi culturali non ben superati che vanno disvelati e che non possono fondare la scelta giudiziale”.

In tema, va citata anche la recente sentenza della CEDU (Leon Madrid c/Spagna 26.10.2021) che – con riferimento a una fattispecie risalente all’epoca in cui in quel Paese il cognome si attribuiva con preponendo quello paterno – ha qualificato come discriminatorio nei confronti delle madri l’automatismo di premettere il cognome paterno, condannando la Spagna per la violazione degli artt. 14 e 8 della Convenzione sui diritti umani.

E’ dunque chiaro, come evidenziato da ultimo dal Giudice delle leggi con l’ordinanza di rimessione dinanzi a se stesso (Corte cost. n. 18/2021), che neppure il consenso sui cui fa leva la limitata possibilità di deroga alla generale disciplina del patronimico potrebbe ritenersi espressione di un’effettiva parità fra le parti, posto che una di esse (la madre) necessita di un accordo per far prevalere il proprio cognome

I mutamenti sociali – di cui la giurisprudenza nazionale e sovranazionale citata è espressione – impongono come indifferibile l’intervento del legislatore che riconduca il nostro ordinamento nel solco della parità dei diritti. Tuttavia, l’auspicata modifica legislativa non sarà di per sé sufficiente laddove non venisse utilizzata come strumento per il cambiamento culturale – di cui tutte e tutti siamo responsabili – idoneo a sradicare gli ultimi retaggi che ancora oggi costringono le donne e le madri all’invisibilità, anche rispetto alla propria identità personale, in violazione della legalità costituzionale.

 

Pina Rifiorati è Avvocata e Presidente del CPO dell’Ordine degli Avvocati di Udine

 

Potrebbe interessarti anche