La parità retributiva “tra lavoratori” nelle cooperative
Il mese di Settembre offre l’occasione per riflettere sul tema della parità retributiva, che può essere declinato nell’ambito del settore cooperativo se si considera l’evoluzione che la figura del socio lavoratore (subordinato) di cooperativa ha avuto nel tempo.
Prima del 2001, il rapporto intercorrente tra socio lavoratore e cooperativa veniva considerato unico e di natura esclusivamente associativa, pertanto, la prestazione lavorativa si considerava parte del rapporto associativo, quale adempimento del contratto sociale. Le cooperative facevano, così, entrare il soggetto interessato nella compagine come socio, nascondendo, in realtà, un rapporto di lavoro subordinato, al fine di evitare il relativo costo del lavoro. A differenza del lavoratore assunto con contratto di lavoro subordinato, al socio, che eseguiva anch’esso di fatto la prestazione lavorativa alle «dipendenze e sotto la direzione» (art. 2094 c.c.) della cooperativa, non veniva corrisposta la retribuzione ai sensi dell’art. 36 Cost.
Le carte del gioco cambiano con l’entrata in vigore della l. n. 142/2001, che disciplina per la prima volta la posizione del socio lavoratore di cooperativa, perché sancisce la coesistenza di due rapporti: un rapporto associativo e un rapporto (ulteriore) di lavoro, dove quest’ultimo può avere forma subordinata, autonoma o qualsiasi altra forma (art. 1, co. 3). In questo modo, la prestazione lavorativa resa dal socio configura il rapporto di lavoro e non quello associativo, con conseguente applicazione delle tutele previste dall’ordinamento.
La legge, inoltre, disciplina espressamente e analiticamente il trattamento economico spettante al socio lavoratore.
Entrando nel merito, l’art. 3, co. 1 stabilisce il diritto del socio lavoratore a un trattamento economico complessivo “di base”, che deve essere «proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro prestato e comunque non inferiore ai minimi previsti dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine». Invece, l’art. 3, co. 2 prevede eventuali trattamenti definiti “ulteriori”, rappresentati dalla maggiorazione retributiva e dal ristorno.
Il primo comma conferma, dunque, il diritto del socio lavoratore a percepire una retribuzione, in quanto la disposizione, pur non richiamando espressamente l’art. 36 Cost., trasla il contenuto al suo interno, richiamando il principio di proporzionalità, in relazione alla durata della prestazione e alle mansioni svolte.
La “sufficienza” viene, invece, definita attraverso il richiamo espresso ai contratti collettivi, che in base all’art. 7, co. 4 del d.l. n. 248/2007 (convertito in l. n. 31/2008), devono essere «stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria». Questo rinvio è assolutamente peculiare nel nostro ordinamento tanto da aver sollevato dubbi di legittimità costituzionale in relazione all’art. 39 Cost. Sul punto, la Corte Costituzionale con la nota sentenza n. 51/2015 ha riconosciuto la legittimità della disposizione, perché questa non attribuisce ai contratti collettivi efficacia erga omnes, ma soltanto il ruolo di paramento esterno di commisurazione da parte del giudice.
Il legislatore con la l. n. 142/2001, oltre a definire la retribuzione, ha permesso, sotto questo profilo, la parificazione tra socio lavoratore e lavoratore (non socio) di cooperativa, per evitare il verificarsi di possibili discriminazioni nei confronti del primo, che svolge le medesime mansioni del secondo. Una cooperativa genuina, rispettosa delle disposizioni di legge, può dunque garantire ai propri soci lavoratori una “giusta” retribuzione al pari dei (meri) lavoratori.