La diversità sta negli occhi di chi guarda (e giudica): la Corte EDU in un caso di affidamento genitoriale
Negare l’affidamento di un bambino a una persona omosessuale costituisce una discriminazione in base agli artt. 8 e 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU). È quanto ha deciso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Corte EDU) nel caso X. c. Polonia (ric. 20741/10) del 16 settembre 2021.
In un sistema multilivello di tutele dei diritti, dunque, risulta confermata la centralità del dialogo tra giudici nazionali e corti sovranazionali (per i riflessi sul contesto italiano della nota decisione sul diritto di visita del genitore omosessuale Salgueiro da Silva Mouta c. Portogallo, 21 dicembre 1999, v. F. Bilotta, Omogenitorialità, adozione e affidamento famigliare, par. 1- 3.1., in Diritto della famiglia e delle persone, 2011, 2, II, 899-938 e par. 4-10, in Diritto della famiglia e delle persone, 2011, 3, II, 1375-1405).
Ancora una volta, è nello spazio giuridico sovranazionale che il valore della dignità umana delle persone omosessuali trova un fertile terreno di protezione (cfr. Karner c. Austria, con cui per la prima volta la Corte di Strasburgo è giunta a ricondurre le relazioni tra omosessuali nell’alveo della protezione della “vita familiare”. Vedi, inoltre, A. M. Lecis Cocco Ortu, L’omogenitorialità davanti alla Corte di Strasburgo: il lento ma progressivo riconoscimento delle famiglie con due padri o due madri, in GenIUS, 2014, n.2), mentre nel contesto nazionale si riscontra purtroppo una differente “sensibilità” (da ultimo, sebbene attenga alla questione della protezione penale, si deve registrare la bocciatura in Senato del disegno di legge in materia di omo-lesbo-bi-transfobia, v. Yàdad de Guerre, Gli applausi e l’ingiuria, 2021).
Nel caso che ci occupa, la vicenda processuale ruota attorno all’affidamento di quattro bambini, a seguito dello scioglimento del vincolo matrimoniale tra un uomo e una donna, la quale nello stesso periodo aveva iniziato una relazione lesbica che aveva inasprito i rapporti tra i due ex coniugi incidendo sull’affido dei figli, soprattutto del figlio minorenne. La relazione omosessuale della donna fu infatti osteggiata sia dai suoi genitori, che richiesero (vanamente) l’affidamento dei bambini, sia dal suo ex marito, il quale non aveva mai nascosto pregiudizi lesbofobi, espressi anche in sede di giudizio.
Nel 2008, la Corte polacca decise per l’affido a favore dell’uomo. Il verdetto della Corte seguì a una serie di pareri di esperti, i quali, nel valutare le capacità genitoriali della donna, ritennero che queste fossero compromesse dalla sua relazione omosessuale, auspicando una correzione dei suoi comportamenti e l’interruzione del rapporto con i bambini, al fine di escludere la compagna dalla vita della donna e da quella dei suoi figli.
Se, prima facie, potrebbe profilarsi un giudizio della Corte nazionale tutto incentrato sugli interessi preminenti dei figli, andando più a fondo emerge un’effettiva discriminazione basata sull’orientamento sessuale della donna. In primo luogo, infatti, la Corte polacca non aveva considerato minimamente la nuova relazione che l’ex marito aveva costruito nel corso del tempo con una nuova compagna, dalla quale aveva avuto un figlio; inoltre, aveva glissato sul rapporto della ricorrente con l’ultimo figlio, il quale aveva dimostrato un solido legame con la mamma e una profonda affezione verso la sua compagna. In ultimo, è riscontrabile puntualmente e sottilmente nelle parole della Corte un certo pregiudizio verso la capacità della donna di adempiere ai suoi compiti genitoriali, poiché “troppo concentrata su se stessa e sulla sua relazione”.
Il caso viene sottoposto dalla ricorrente alla Corte EDU, che incanala la discussione entro i canoni della tutela antidiscriminatoria, come sancito dalla CEDU.
La Corte di Strasburgo richiama la Raccomandazione adottata dal Comitato dei Ministri il 31 marzo 2010 (CM/Rec(2010)5) relativa alle misure per “combattere la discriminazione fondata sull’orientamento sessuale o l’identità di genere”, nella quale vengono formulate le raccomandazioni agli Stati membri volte a vietare ogni forma di discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale o identità di genere, nei casi di responsabilità genitoriali e affidamento di un bambino (Par. IV, punto 26). La stessa Raccomandazione viene successivamente suggellata dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (APCE) con la Risoluzione 2018/2239, che prescrive il principio dell’uguaglianza nei rapporti privati e familiari indipendentemente dall’orientamento sessuale. La Risoluzione 2018/2239 trova fondamento, d’altronde, in alcuni studi che non rilevano differenza alcuna tra la situazione di benessere dei figli delle famiglie omogenitoriali e quella dei figli di famiglie eterosessuali.
La Corte Edu, successivamente, si richiama a un precedente di una differente Corte regionale, al fine di corroborare l’indirizzo che, in ossequio ai principi comunitari e coerentemente con quanto emerso dagli studi menzionati, intende legittimamente intraprendere. Nel caso di Atala Riffo e figlie c. Cile, sentenza del 24 febbraio 2012, serie C n. 239, la Corte interamericana dei diritti dell’uomo ha ritenuto che la decisione del tribunale cileno di esonerare una madre omosessuale dalla custodia genitoriale dei suoi tre bambini costituisse un trattamento discriminatorio fondato sull’orientamento sessuale, in violazione del diritto all’uguaglianza (art. 24, in combinato disposto con l’art. 1 della Convenzione americana dei diritti umani del 1969) e del diritto a una vita privata e vita familiare (artt. 11 e 17 della stessa Convenzione). La sentenza del tribunale cileno fondava il proprio ragionamento sulla decisione “legalmente riprovevole” della donna di non rinunciare a un aspetto della propria identità, pregiudicando così il corretto adempimento delle “tradizionali” responsabilità materne. Al contrario, secondo la Corte interamericana, la relazione omosessuale della donna non avrebbe inciso sulle sue responsabilità genitoriali e sull’interesse verso le figlie, poiché non vi è “prova specifica dei rischi o dei danni (…) che potrebbero derivare dall’orientamento sessuale della madre”, opponendosi, così, alla sentenza del tribunale cileno.
Sulla scorta di tale decisione, la Corte EDU respinge la decisione della Corte polacca per violazione dell’art. 14 in combinato disposto con l’art. 8 della CEDU. L’art. 14 stabilisce, infatti, il divieto di discriminazioni, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, laddove per “altro genere” la Convenzione allude anche a quelle per orientamento sessuale o identità di genere (sull’orientamento sessuale come categoria “protetta”, v. R. Wintermute, Sexual Orientation and Human Rights: The United States Constitution, the European Convention and the Canadian Charter, 1997). Nello specifico, nella sentenza della Corte polacca emerge una disparità di trattamento poichè non vi è una “ragionevole proporzionalità” tra la finalità perseguita (l’interesse preminente del minore) e il mezzo impiegato per approdare alla tutela di tale interesse (l’esclusione della mamma dall’affido). In definitiva, la decisione a cui perviene la Corte nazionale è priva di una “giustificazione obiettiva e ragionevole”, mentre esprime pregiudizi scientificamente infondati, smentiti nel caso di specie dallo stretto legame del bambino con la madre. In definitiva, il giudice polacco si è appoggiato a una visione stereotipata del modello famigliare fondata sull’essenzialità del “modello di ruolo maschile” nell’educazione dei bambini.
Nello specifico, il rinvio all’art. 8 della CEDU, che sancisce il diritto e il rispetto della vita privata familiare, definisce il diritto fondamentale violato dalla Corte polacca, ossia il rifiuto a garantire i diritti genitoriali della madre e il conseguente affidamento del figlio più piccolo in ragione del suo orientamento sessuale. Una violazione che è indispensabile rilevare per valutare l’ulteriore violazione dell’art. 14 CEDU.
La sentenza della Corte Edu ribadendo i principi di uguaglianza e parità di trattamento, in linea con la recente strategia dell’Unione Europea per l’uguaglianza delle persone LGBT, si rivela fondamentale nella perimetrazione dei diritti fondamentali delle persone omosessuali nel contesto familiare, tutelando così quelle categorie a forte rischio di “indegnità”, che «conduce a una “morte civile”, a una progressiva espropriazione d’ogni diritto che costruisce categorie di “indegni” nei cui confronti ogni aggressione diviene legittima» [S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, 2012, p. 207].
PER APPROFONDIRE
Laura Tomasi, La famiglia nella Convenzione europea dei diritti umani: gli artt. 8 e 14 Cedu, in Questionegiustizia
Raccolta di precedenti della CEDU sui diritti dei genitori
Corte EDU, Guida all’articolo 8 della Convenzione europea sui diritti umani
FRA, Manuale di diritto europeo in materia di diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, 2015
Giovanna Barca, Il diritto della bigenitorialità secondo le pronunce della Cedu, in Osservatorio Giuridico Italiano, 7 gennaio 2021