Intolleranza, razzismo e antisemitismo nella forma dei crimini d’odio e dei fenomeni dei discorsi d’odio
Testo dell’audizione del prof. Giuseppe Di Genio dell’Università di Salerno, svoltasi il 16 settembre 2021 presso la Commissione straordinaria antidiscriminazione del Senato della Repubblica sui fenomeni di intolleranza, razzismo e antisemitismo sia nella forma dei crimini d’odio sia dei fenomeni dei discorsi d’odio.
“Nessuno nasce con l’odio, la gente impara ad odiare”
Partirei da questa semplice frase, di uso comune (estrapolata da un celebre pensiero di Nelson Mandela)[1], dopo vivi ringraziamenti per avermi consentito questo intervento, per inquadrare e analizzare un tema complesso, quello dei discorsi d’odio e dei crimini d’odio negli ordinamenti democratici contemporanei, fenomeno oramai di portata globale, che affligge nella vita quotidiana la tutela concreta ed effettiva dei nostri cari diritti fondamentali ex artt. 13-54 Cost.
Lo sottolineo sin da subito: il problema reale, che deve essere oggetto di attenzione futura della Commissione straordinaria nelle sue peculiari funzioni, è proprio quello dell’effettività e della cogenza c. d. sussidiaria, del seguito legislativo vigente e/o futuro e della tutela concreta e immediata dei diritti e delle libertà fondamentali ex art. 2 Cost., coinvolte nell’hate speech (in particolare, si pensi agli artt. 15 e 21 Cost.), nelle sue numerose, differenti, ma non indifferenti, realizzazioni e configurazioni, personali, individuali, istituzionali, collettive, sociali (e social).
Valga sottolineare che, in realtà, nel linguaggio di determinati social usati dai giovani è più appropriato parlare di frasi e parole, anche disarticolate, di odio, a volte di impeto, improvvisate, esaltate, inconsapevoli ed ignoranti (ampiamente perseguibili e punibili), non propriamente di discorsi di odio.
Bisogna, infatti, valutare, sul modello spagnolo (Tribunal Constitucional n. 177/2015), anche chi lo fa (el discurso del odio in lingua spagnola), come lo fa, dove lo fa, quanto e quando lo fa, il tempo, la continuità, la recidiva etc.
Di contro, la ricerca spasmodica di una legge ma anche l’ipertrofia normativa e l’iper-legislazione (come problema di tecnica legislativa), rischia di rendere inefficaci, visto il perdurare del fenomeno (in crescita statistica dal 2000), le numerose e variegate misure finora adottate sull’hate speech, pur rilevanti.
Valga citare, per esempio, nel dato iniziale, la c.d. legge n. 205 del 1993 (Mancino-Scalfaro) di conversione del decreto legge n. 122 del 1993, un buon punto di partenza, da non sottovalutare del tutto e da ri-considerare nel diritto interno per tutelare anche i c.d. diritti di memoria, con le dovute correzioni ed integrazioni anche sui profili sanzionatori.
Il collegamento, poi, con il discusso DDL Zan è inevitabile.
Come è noto, tra le novità del provvedimento è prevista la reclusione fino a 18 mesi o una multa fino a 6.000,00 euro per chi commette atti di discriminazione fondati “sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere o sulla disabilità”. Il progetto di legge prevede, inoltre, il carcere da 6 mesi a 4 anni per chi istiga a commettere o commette violenza per gli stessi motivi; la reclusione da 6 mesi a 4 anni per chi partecipa o aiuta organizzazioni aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per gli stessi motivi. Per qualsiasi reato commesso per le finalità di discriminazione o di odio la pena viene aumentata fino alla metà. Il condannato, però, può ottenere la sospensione condizionale della pena, se presta un lavoro in favore delle associazioni di tutela delle vittime dei reati. La legge, poi, istituisce anche una giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia, il 17 maggio.
Dati interessanti sono presenti, oltremodo, sia in sede europea-internazionale (la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, la Carta delle Nazioni Unite del 1945, la Carta dei diritti Carta dei diritti fondamentali, la Cedu e i suoi artt. 8,10 e 14, l’art. 20 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, l’art. 4 della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, la Raccomandazione del Consiglio d’Europa del 1997, la n. 35 dell’ONU, la decisione n. 9/09 dell’OSCE) sia sul versante giurisprudenziale e delle Alte Corti, interne ed esterne, più volte chiamate a pronunciarsi.
Il dato europeo ed internazionale sarà dirimente per contrastare il fenomeno nel mondo di internet, la cui disciplina, quasi impossibile, perché fortemente influenzata da istanze lobbistiche, non potrà non essere che europea ed internazionale ovvero di stampo globale e dovrà essere capace di ri-creare, inevitabilmente, un foro del consumatore digitale ed una tutela del cittadino globale.
Lo stesso governo britannico, post Brexit, ha annunciato la presentazione di una legge che costringa i big dei social a mettere in campo strumenti concreti per eliminare contenuti pericolosi o violenti, come abusi sui minori, cyberbullismo e propaganda terroristica
L’approccio europeo sul tema, tuttavia, è ancora debole.
Solo di recente la Corte Edu con due sentenze del 16 febbraio 2021 (Budinova c. Bulgaria e Behar e Gutman c. Bulgaria) ha riconosciuto che i discorsi d’odio non solo giustificano una legittima restrizione alla libertà di espressione ma costituiscono anche una violazione del diritto alla vita privata e familiare senza discriminazioni per ragioni legate all’origine etnica e razziale.
Si è superato, così, quel margine di tolleranza europeo “intollerabile” (quasi all’americana – Matal v. Tam del 2017) e la logica del bilanciamento (con il relativo test di proporzionalità) si è spostata contro la garanzia incondizionata e indiscussa della libertà di espressione e di opinione, che non ha più una vis espansiva tale da rendersi inconcepibile con la tutela di altri diritti, più o meno corrispondenti.
Non vi è ancora nella giurisprudenza europea una configurazione autonoma del “divieto di discriminazione” e non si è configurato ancora nel diritto europeo un “diritto umano alla non discriminazione” per ragioni razziali ed etniche (con la correlativa tutela dei diritti di memoria, come nuovi diritti).
Rimane, tuttavia, una via maestra: il faro dei termini lapidei della nostra Costituzione, figlia della guerra e della violenza inaudita, è ancora una volta determinante nel contesto europeo (senza Costituzione), aiuta molto ed esige la sua applicazione diretta e sussidiaria proprio su questo fenomeno, al di là dell’interpositio legislatoris, da parte dei giudici e degli operatori tutti.
Basta leggere la portata e l’attualità dell’art. 3 Cost., molte volte bistrattato nella stessa giurisprudenza costituzionale (tant’è che nella dottrina costituzionalistica si è parlato anche dell’esistenza di un principio di dis-eguaglianza), per rendersi conto che i discorsi d’odio e i crimini d’odio investono i suoi gangli essenziali ovvero il sesso, la razza, la lingua, la religione, le opinioni politiche, le condizioni personali (penso alla disabilità) e sociali e su questi aspetti i discorsi e i crimini d’odio si determinano nel vivere quotidiano delle vecchie e delle nuove generazioni.
Si tratta, infatti, di un problema quotidiano, sociale (non solo social), avvertito da tutti, cittadini e operatori pubblici e privati, a qualsiasi livello di competenze e conoscenze.
Pertanto, il sistema dei nostri principi fondamentali (1-12 Cost.) e diritti fondamentali (13-54 Cost.) diventa ancora una volta un baluardo valoriale, non virtuale, di dignità umana e auto-responsabilità, tale da richiedere, come zoccolo duro, la ricerca di misure concrete, cogenti ed effettive di contrasto al fenomeno in questione, che esigono una migliore e maggiore attuazione ed applicazione, per ora, delle regole vigenti sia da parte della giurisprudenza di riferimento (in primis, la Corte Costituzionale –C. Cost. n. 59/2018 – ma anche i giudici di merito, soprattutto in sede penale ex artt. 415 e 604 bis e ter c.p. e gli stessi giudici militari sui crimini di guerra, molte volte impuniti) sia da parte delle istituzioni e amministrazioni coinvolte (penso, tra l’altro, alle prefetture ed alle autorità indipendenti), nessuna esclusa (penso ancora agli insegnanti, ai Dirigenti scolastici ed ai Tribunali per i minori nonchè ai Rettori sui fenomeni di bullismo), la cui responsabilità è di tutta evidenza.
Nondimeno, la soluzione non è solo normativa, interna ed esterna, ma, in termini di prevenzione, come è noto, anche di carattere culturale ed educativo: in ciò rileva appieno la funzione ri-educativa della pena ex art. 27 Cost.
Un profilo ulteriore è, poi, quello di iniziare a parlare di una “legalità della cultura”, proprio nello Stato di cultura europeo (la natura giuridica dell’U.E. è ancora molto acerba), dove si agisce per decisioni, codici di autoregolazione e di condotta (2016) nonché apposite direttive (2010/13/UE, 1808/2018, 31/2000, 43/2000, 541/2017).
Ben vengano le ricorrenti manifestazioni culturali contro il fenomeno dell’hate speech, nelle scuole, nelle università, nelle piazze, da parte delle istituzioni e delle associazioni ma sarebbe importante anche creare, con i proventi delle sanzioni economiche, un fondo di garanzia per le vittime dell’odio.
Esse, tuttavia, non sono sufficienti perché non è più sufficiente parlare solo di una “cultura della legalità”.
Come diceva Piero Calamandrei: “se si vuole che la democrazia prima si faccia e poi si mantenga e si perfezioni, si può dire che la scuola a lungo andare è più importante del Parlamento e della Magistratura e della Corte Costituzionale”.
A ulteriore esempio, mi sia consentito, nel variegato fenomeno in questione, sul femminicidio, ritengo poco appropriate le iniziative simboliche e fattuali sulle c.d. panchine rosse, per un motivo molto semplice: per me le donne stanno in piedi (basta vedere le recenti vicende delle donne che protestano in Afghanistan contro il nuovo regime talebano), non sedute; io non ho mai visto mia madre o mia nonna sedute, ma le ricordo sempre in piedi, impegnate e indaffarate con i problemi e le angosce della vita quotidiana.
In tale direzione, sono favorevole a prevedere, sussistendone i presupposti, una scorta personale alle donne perseguitate dagli stalkers, anzi l’agente di polizia, appositamente formato e scelto, potrebbe fungere anche da “psicologo dello stalker”, nel senso che potrebbe, a sua volta, come misure di prevenzione, seguirlo, studiarlo e capirne le mosse.
Proprio perché nessuno nasce con l’odio ma impara a odiare e “la memoria è un vaccino contro l’indifferenza” (Liliana Segre), tutte le istituzioni coinvolte nella tutela dal complesso fenomeno in questione, in contesti oramai multiculturali e multilevel, sulla base delle scelte parlamentari, interne ed esterne, hanno l’obbligo di garantire efficacemente e responsabilmente (rispondendone in sede penale, civile e disciplinare) l’attuazione concreta dei principi e dei diritti fondamentali, attraverso la normativa di riferimento, vigente e futura, interna ed esterna, con provvedimenti giudiziali e non, seri e dalle conseguenze certe, in termini di sanzioni e pene, seguendo un modello stringente e deciso (apprezzabile, per molti versi, quello tedesco – art. 18 GG e codice penale federale – e francese, con la loi Pleven del 1972).
La legge tedesca del 2017 punisce con la multa fino a 50 milioni di euro i social media con più di due milioni di iscritti che non rimuovono i contenuti di odio e le frasi discriminatorie dalle proprie piattaforme.
Spicca, poi, su tutti, come modello legato al multiculturalismo, quello canadese, basato proprio su rigidi rimedi anti discriminatori di stampo civilistico e strumenti penali a tutela della persona umana, in un quadro costituzionale molto attento al tema della dignità e dell’eguaglianza.
Sul profilo risarcitorio delle responsabilità dei genitori dei minori coinvolti (ad esempio, nei casi di sexting e revenge porn) e dei soggetti attuatori della attuale e futura disciplina vigente, interna ed esterna (pur nella speranza di una legge omnibus, maggiormente definitoria degli hate speeches), insisterei molto e si dovrà incidere normativamente, anche sul versante europeo (un Regolamento europeo sarebbe forse più appropriato, perché direttamente applicabile?), con sanzioni e pene, certe e conseguenti.
A mò di conclusione, sono segnate le due tracce, come ipotesi di lavoro, che sono l’effettività delle tutele sanzionatorie (economiche e non) e la legalità della cultura, per una vera funzione rieducativa (anche digitale) della pena ex art. 27 Cost., nella certezza del diritto e dei diritti.
Se è vero che, come insegna il costituzionalismo moderno, “la migliore garanzia di una democrazia è il dissenso, non il consenso”, e, secondo de Lolme, il “Il Parlamento può fare tutto, tranne che trasformare una donna in uomo e un uomo in una donna”, può essere utile rileggere “Secondo nostra lege” di Mario Luzi, Poeta e Senatore a vita, a voi caro, a tutti noi caro, per sottolineare, nel ricordo indelebile, la schiacciante necessità di garantire una legge giusta, che difficilmente si cattura:
Divergono talora
Legittimità e giustizia,
il cuore umano
ecco si tortura.
Non da «super», da uomini
per uomini
Legiferare è difficile,
difficilmente il giusto si cattura,
un grumo che rimorde
al fondo dell’anima perduta;
lo so, nella specie di ordine e di forma
l’arbitrio e il prepotere
sono duri a tollerarsi.
Il paragone nostro non ha fine:
che restino il giusto
e il legittimare avvinghiati
fra loro fortemente, sempre.
[1] Nessuno nasce odiando qualcun altro per il colore della pelle, il suo ambiente sociale o la sua religione.
Le persone imparano a odiare, e se possono imparare a odiare possono anche imparare ad amare, perché l’amore, per il cuore umano, è più naturale dell’odio.
Quello che conta nella vita non è il semplice fatto che abbiamo vissuto. È il modo in cui abbiamo fatto la differenza nella vita degli altri a determinare il significato della vita che conduciamo.
L’istruzione è l’arma più potente per cambiare il mondo.
Essere liberi non significa solo spezzare le proprie catene.
Significa vivere rispettando e valorizzando la libertà degli altri.
La maggior gloria nella vita non è non cadere mai, ma rialzarsi ogni volta che si cade.