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Inammissibile la climate litigation davanti al giudice civile

Attualità - Loretta Moramarco, dottoressa di ricerca in diritto ed economia dell’ambiente - 6 Aprile 2024

 

Con sentenza del 26 febbraio 2024 si è chiusa la prima causa climatica italiana, avviata dinanzi al Tribunale di Roma da 203 ricorrenti (17 minori, rappresentati in giudizio dai genitori, 162 cittadini e 24 associazioni) contro lo Stato italiano per conseguire l’osservanza, nei tempi e nei modi prescritti, delle obbligazioni positive di contrasto al cambiamento climatico.

L’iniziativa giudiziaria, denominata Giudizio Universale, si è conclusa con un giudizio di inammissibilità delle domande «per difetto assoluto di giurisdizione del Tribunale adito e per essere la questione (nei termini di cui in motivazione) devoluta al Giudice amministrativo».

La breve sentenza contiene alcune indicazioni in punto di qualificazione del petitum nonché degli obiter dicta che sembrano suggerire agli attori una diversa possibile direzione dell’azione. Afferma la giudice che «l’interesse di cui si invoca tutela risarcitoria ex art. 2043 e 2051 c.c. non rientra nel novero degli interessi soggettivi giuridicamente tutelati, in quanto le decisioni relative alle modalità e ai tempi di gestione del fenomeno del cambiamento climatico antropogenico […] rientrano nella sfera di attribuzione degli organi politici e non sono sanzionabili nell’odierno giudizio».

Secondo il Tribunale, infatti, il petitum sostanziale è «un sindacato sulle modalità di esercizio delle potestà statali previste dalla Costituzione».

Tra i “suggerimenti” agli attori che si ricavano da alcuni obiter dicta vi è quello di «attivare i rimedi pure previsti dall’ordinamento europeo per contestare la legittimità degli atti UE» oppure di contestare allo Stato Italiano la violazione «degli obblighi assunti nell’ordinamento euro unitario». Tuttavia il Tribunale sembra reputare scarsamente contestabili tanto gli atti europei che fissano gli obiettivi di riduzione delle emissioni, quanto quelli emanati dallo Stato italiano in attuazione degli stessi. In ogni caso è censurata la possibilità di discutere della responsabilità dello Stato-legislatore «fuori dai casi di violazione del diritto dell’Unione Europea».

Poco spazio è, invero, dedicato ad argomentare sulle ampie deduzioni degli attori, in quanto la questione di giurisdizione assorbe l’intera motivazione in maniera piuttosto tranchant.

Il Tribunale reputa errato chiedere al giudice di «accertare i presupposti dell’illecito» senza tener conto della circostanza che «tale accertamento non può prescindere da un sindacato sul quando e sul quomodo dell’esercizio di potestà pubbliche (che pure tiene conto delle indicazioni provenienti dalla scienza». Peraltro considera «non verificabili» in sede civile le «valutazioni prognostiche di parte attrice, in ordine alla inadeguatezza delle scelte politiche effettuate per la realizzazione degli obiettivi cui lo Stato italiano si è auto vincolato».

L’atto di citazione conteneva anche un paragrafo sul diritto antidiscriminatorio (per violazione degli artti. 2,8 e 14 CEDU) a cui, però, la sentenza non fa riferimento. Appare evidente una certa ritrosia del giudice ad intervenire su tali materie, ancora considerate più “politiche” che giuridiche.

I legali di Giudizio Universale hanno dichiarato di voler impugnare la sentenza.

Il 9 maggio 2023 le Greenpeace Onlus e Recommon APS e alcuni singoli cittadini hanno depositato presso il Tribunale Civile di Roma un ulteriore atto di citazione, denominato la “Giusta Causa”, riconducibile alle climate litigations, nei confronti di Eni S.p.A, Cassa Depositi e Prestiti S.p.A e del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Sul sito della società ENI è riassunta la posizione della società nella sezione nominata “La Falsa Causa“.

Per approfondire

Trib. Roma 26 febbraio 2024

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