Il principio di non discriminazione nel periodo di comporto dei disabili
Il Giudice del Lavoro di Verona, con l’ordinanza del 21 marzo 2021, ha stabilito che la previsione di un periodo di comporto uguale per i lavoratori disabili e per quelli normodotati costituisce una discriminazione indiretta, in quanto la disposizione, nonostante sia apparentemente neutra, introduce di fatto una disparità di trattamento a danno dei soggetti disabili, i quali statisticamente sono più assenti per malattie collegate alle patologie invalidanti rispetto agli altri lavoratori.
Nel caso di specie, un lavoratore disabile era stato licenziato per aver accumulato un numero di giorni di assenza superiore al periodo di comporto. Il licenziamento era poi stato impugnato dallo stesso dipendente, il quale sosteneva che costituisse discriminazione indiretta la mancata previsione da parte del CCNL Agenzie Somministrazione di lavoro del 27 febbraio 2014 (applicabile alla fattispecie in esame) di una distinzione del periodo di comporto tra normodotati e lavoratori disabili, essendo questi ultimi più facilmente soggetti ad assenze per malattie collegate alle patologie invalidanti di cui sono affetti.
Secondo il datore di lavoro convenuto in giudizio, invece, il CCNL di riferimento si sottraeva a tale censura, in quanto la disposizione che disciplinava il periodo di comporto (art. 39) prevedeva che «per i soggetti con disabilità, destinatari delle previsioni contenute nell’articolo 3 comma 3 della legge 104/92, i permessi per cura sono esclusi dal computo dei periodi di malattia».
Il Tribunale di Verona ha accolto, però, le richieste del dipendente, dichiarando nullo ai sensi dell’art. 15. L. n. 300/1970 — con conseguente applicazione della tutela di cui all’art. 18, comma 1, della stessa legge – il recesso datoriale, valutando la disciplina del CCNL applicato non sufficientemente adeguata ad escludere il rischio di un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto ai lavoratori portatori di handicap. Il contratto collettivo, infatti, si limita a disciplinare i permessi per cura richiesti da una determinata categoria di soggetti portatori di handicap e cioè coloro che si trovano in una situazione di gravità (art. 3, comma 3, L. n. 104/1992), mentre sono esclusi i soggetti disabili che – come il ricorrente – non sono riconosciuti in condizioni di gravità ma sono comunque ascrivibili alla categoria protetta contro le discriminazioni nel rapporto di lavoro. Inoltre, lo stesso contratto collettivo si riferisce letteralmente e tassativamente solo a permessi per terapie, che quindi possono non coincidere con le assenze per malattia in senso stretto.
La lacunosità della previsione contrattuale in parola è confermata proprio dal fatto che, in occasione del rinnovo avvenuto il 15 ottobre 2019, i firmatari hanno introdotto un’espressa previsione in forza della quale vengono escluse dal periodo di comporto le assenze per malattie “ingravescenti”, a prescindere dal riconoscimento del lavoratore come portatore di handicap in situazione di gravità.
Così, in forza dei principi nazionali e sovranazionali (v. artt. 2 e 5 della Direttiva 2000/78/CE; art. 3, comma 3-bis, d.lgs. n. 216/2003), il datore di lavoro deve tenere in considerazione la situazione di svantaggio del lavoratore, adottando “soluzioni ragionevoli” idonee ad evitare una discriminazione indiretta che produca l’effetto di estromettere il dipendente dal contesto lavorativo.
Inoltre, secondo il Giudice del Lavoro, non sono condivisibili nemmeno le argomentazioni del datore di lavoro laddove afferma di non essere stato in grado di verificare la riconducibilità dell’assenza del ricorrente alle patologie invalidanti di cui è affetto, poiché per la sussistenza della discriminazione non è richiesto che il comportamento datoriale sia intenzionalmente discriminatorio (quindi doloso), essendo sufficiente che la discriminazione operi «obiettivamente, ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, e a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro» (così anche Cass., sez. lav., 27 settembre 2018, n. 23338).
In conclusione, il Giudice ha ritenuto che l’applicazione generalizzata della disciplina contrattuale, senza la previsione di accorgimenti a tutela delle persone disabili, costituisca una discriminazione indiretta, sanzionata dalla normativa comunitaria e nazionale. Si rammenta che alle medesime conclusioni, in una vicenda analoga a quella in esame, è pervenuta anche la Corte di Giustizia UE nella sentenza del 18.01.2018, causa C270/16 (Ruiz Conejero).