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Il mobbing (in un contesto) in continua evoluzione: un confronto interdisciplinare

Diversity & Inclusion - Antonia Ballottin, Massimiliano De Falco, Daniele Gasparini - 28 Novembre 2022

Il mobbing (in un contesto) in continua evoluzione

di

Antonia Ballottin, Psicologa del lavoro Spisal aulss 9 Verona, Vice-presidente Siplo – Società Italiana di Psicologia del Lavoro e dell’organizzazione
Massimiliano De Falco,  Assegnista di ricerca in Diritto del Lavoro nell’Università di Modena e Reggio Emilia

Daniele Gasparini, Psicologo del lavoro, Consulente aziendale

 

Ha ancora senso parlare di mobbing e delle disfunzioni organizzative nei contesti di impiego? Come sono cambiate le persone, le organizzazioni e le norme negli ultimi 20 anni in relazione ai concetti di benessere, salute e sicurezza negli ambienti di lavoro? In questo articolo, gli autori si misurano con queste  domande, con l’idea di comprendere quale possa essere la rilevanza del fenomeno nel contesto attuale, grazie all’analisi di esperienze dirette, ricerche e studi, affrontati in chiave interdisciplinare.

Lo scritto, che viene riproposto separatamente per autore, propone qui anche le conclusioni comuni.

 

“Mi piace lavorare” – di Daniele Gasparini

Sono passati quasi 20 anni (18 per l’esattezza) da quando giravo l’Italia in lungo e in largo come docente nei corsi di formazione sul tema del mobbing: insieme a colleghi affrontavamo quello che, in quel periodo, appariva un fenomeno complesso, per certi versi nuovo, e che riuniva dinamiche relazionali, organizzazione aziendale e salute (e dignità) delle persone che lavorano.

Un periodo intenso, dove la parte di studio e “didattica” era costellata di incontri e racconti di situazioni di disagio professionale e personale, che descrivevano un mondo di sofferenza, paura e voglia di riscatto, con quel nodo in gola che ha il valore della dignità. In quel contesto, avevo l’impressione che, nei racconti di chi percepiva di subire ingiustizia, ci fosse sempre il desiderio di resistere all’ingiustizia, per preservare il benessere, la dignità e la salute mentale.

Era il periodo del film “Mi piace lavorare”, dove Nicoletta Braschi interpretava il ruolo di una impiegata oggetto di continui attacchi e vessazioni perpetrate dai colleghi, dai responsabili finanche dal datore di lavoro.

Ho raccolto storie di soprusi professionali e personali, di demansionamenti (in particolar modo, al rientro dalla maternità), di riunioni convocate in orari tali da renderne impossibile la partecipazione, di uffici che diventavano stanze senza strumenti, di gruppi “senza qualcuno” (quello che, oggi, succede nel mondo virtuale delle chat di Whatsapp in cui non si viene inseriti, allora come adesso, accadeva con la partecipazione a gruppi più o meno formali). Storie di diffusione di false notizie sullo stato di salute dei lavoratori, di sarcasmo, di apprezzamenti non graditi, di umiliazioni pubbliche o di screditamento e calunnia, nonché di famiglie messe in crisi nella difficoltà di gestire e vivere il disagio di familiari vittime di azioni mobbizzanti.

E ancora, storie di responsabili che si erano dimessi a seguito di azioni messe in atto dai propri collaboratori, volte a destituirli e/o a renderne inefficace l’operato. Sono proprio questi ultimi i casi di mobbing verticale (dal basso) in cui una concomitanza di fattori quali collaboratori resistenti al cambiamento e responsabili spesso incapaci di assecondare le regole non scritte del quotidiano vivere le relazioni e le logiche di potere, avevano come conseguenza la messa in atto di azioni ostacolanti da parte dei collaboratori e la rinuncia al ruolo da parte dei responsabili.

E poi ancora, svilimento dell’operato, apprezzamenti non graditi, umiliazioni pubbliche o screditamento e calunnia, ecc…, atti di violenza che fanno tornare alla mente la frase di Isaac Asimov “La violenza è l’ultimo rifugio degli incapaci

In un processo di continuo e progressivo isolamento nelle relazioni di gruppo, in cui ogni attore delle relazioni vede e osserva, ma, per svariati motivi (tra i quali la pressione della cultura organizzativa dominante e interessi personali) non agisce, questo non agire determina un isolamento che diviene esclusione. Sicché, quella tacita indifferenza diventa consenso.

Come anticipato, erano i primi anni 2000 e il fenomeno del mobbing aveva fatto capolino in Italia tra gli addetti ai lavori da meno di un decennio, grazie agli studi dello psicologo del lavoro Herald Hege sin dal 1996[1]. Molti anni sonno passati, ma soprattutto molte esperienze, studi e letture si sono susseguite e, come ogni forma di cultura, non sono elementi che si sommano, ma elementi che si complessificano, poiché intrecciandosi tra loro e a quanto fino ad allora accumulato, portano all’emergenza di nuovo sapere e nuova capacità di lettura della realtà.

Tra queste esperienze, quella di psicologo negli sportelli di ascolto aziendale mi ha permesso di comprendere come le azioni ritenuti mobbizzanti, spesso, siano riconducibili a conflittualità (pur grave) all’interno dell’ambiente di lavoro, non sempre riconducibili all’intento (rectius, dolo specifico) di isolare ed escludere la vittima, così come non sempre identificabili nel carattere della sistematicità delle azioni medesime. Tuttavia, lo stato di disagio, malessere e lesione della dignità personale e professionale traspariva dai vissuti e, quindi, dai racconti delle persone incontrate[2].

Le sentenze dei tribunali, della Corte di Cassazione,  la definizione di strumenti di indagine sempre più accurati e norme sempre più precise, hanno permesso di identificare con maggior accuratezza,  i modelli descrittivi del mobbing, gli aspetti peritali, il riconoscimento delle conseguenze sul piano della salute del lavoratore, e la relazione di questi con le responsabilità dei diversi attori, nonché del contesto in cui tali eventi si realizzano, lasciando aperto il dibattito e il confronto, ma delimitandone i confini.

A mio avviso, la sfida (culturale, organizzativa e normativa) è, oggi, conciliare i vissuti individuali (diversi dai vissuti dei gruppi), con le scelte organizzative e il substrato culturale su cui si appoggiano, con un contesto normativo attento alla prevenzione dei rischi sul luogo di lavoro e alla tutela della dignità e dei lavoratori e alla rimozione degli ostacoli alla piena realizzazione della persona.

Le ipotesi di disagio, molestie, vessazioni e ogni altra condizione di malessere individuale devono, quindi, essere lette quale possibile “sintomo del malfunzionamento del gruppo e/o dell’intera organizzazione” poiché da quell’evidenza è possibile agire tempestivamente per risolverne le cause, supportare la persona e prevenire ulteriori situazioni critiche.

Al di là degli specifici obblighi di legge, in termini di prevenzione e del profilo di responsabilità civile e penale, risulta altresì fondamentale interrogarsi sulla cultura organizzativa all’interno della quale tali azioni o condizioni trovano più o meno tacita approvazione o ne rappresentano, semplicemente, la pratica.

 

Il mobbing al centro del dibattito sulla Grande Dimissione – di Massimiliano De Falco

Il fenomeno della cd. Grande dimissione (volontaria) del 2021 – da meglio intendersi quale transizione dei lavoratori da un’occupazione a un’altra – impone di riflettere sul tema del benessere negli ambienti di lavoro, nell’ottica di comprenderne la rilevanza nell’attuale scenario post-pandemico, tanto per le imprese, quanto, e ancor più, per le persone che lavorano.

Oltre alla (ampiamente discussa) questione relativa alle esigenze di una maggiore flessibilità e di una crescente partecipazione organizzativa dei prestatori, un tema che sembra rimanere sullo sfondo del dibattito è quello della tutela della salute e sicurezza nei contesti di impiego. Le persone coinvolte da tali migrazioni, infatti, non sembrano muoversi solamente alla ricerca di condizioni lavorative più favorevoli e appaganti dal punto di vista salariale, ma anche verso ambienti sicuri, che consentano loro una piena realizzazione personale e professionale.

Emerge, allora, la necessità di ripensare l’organizzazione aziendale, ponendo al centro la dignità delle persone ivi inserite, di modo da poter trattenere (e attrarre) queste risorse così preziose e, ora più che mai, indispensabili. I primi passi da compiere per modificare lo status quo consistono nell’individuazione e nella rimozione delle barriere comportamentali che ostano al benessere individuale e collettivo e dalle quali, oggi, si fugge a una velocità mai registrata prima.

Come è noto, il cennato D. Lgs. n. 81/2008 obbliga i datori a valutare e ridurre tutti i rischi che possano incidere sulla «integrità fisica e [sul]la personalità morale» (art. 2087 c.c.) dei propri dipendenti[3], adottando tempestivamente mezzi idonei a prevenire l’insorgenza di potenziali episodi lesivi. Tuttavia, nel novero di tali rischi, quelli psico-sociali sono, sovente, rimasti ai margini delle valutazioni, pur assistendosi, già da tempo e, in particolar modo, nel biennio pandemico, al sorgere di fenomeni generalmente ricondotti sotto le vesti del cd. mobbing.

Tale concetto, inizialmente approfondito dagli studiosi della psicologia del lavoro[4], richiama una situazione di persistente conflittualità, indotta da un’azione (o da una serie di azioni) ripetuta nel tempo, finalizzata a danneggiare la salute o la reputazione della vittima, in un quadro di ostilità continua e preordinata alla sua emarginazione dall’ambiente lavorativo. Benché ancor privo di tipizzazione legislativa, il mobbing è stato riconosciuto anche dalla giurisprudenza nazionale, quale forma di violenza morale o psichica, perpetrata in modo abituale e durevole (o, quantomeno, per un apprezzabile arco temporale[5]), da uno o più aggressori posti in posizione gerarchica di superiorità (cd. mobbing verticale), di parità (cd. mobbing orizzontale), ovvero – anche se meno frequentemente – di inferiorità (cd. mobbing ascendente) rispetto al prestatore cd. mobbizzato, con l’obiettivo di attaccare o isolare lo stesso nel luogo di lavoro[6].

A prescindere dal soggetto attivo del comportamento vessatorio, la peculiarità dell’illecito risiede, quindi, nella premeditazione, ossia nell’intento persecutorio sottostante alle condotte ostili – si noti, anche di per sé lecite se prese in considerazione separatamente – volto alla progressiva esclusione del prestatore e alla sua definitiva espulsione dal contesto di impiego[7].

Diverso è, invece, il caso dello straining, riconosciuto nella prassi giurisprudenziale solo a partire dal 2005[8], il quale si caratterizza per uno stato di stress duraturo e forzato, tale da risultare superiore a quello normalmente collegato alla prestazione lavorativa. In questo caso, infatti, non è necessario un preciso disegno persecutorio, né tantomeno una pluralità di condotte lesive, risultando sufficiente, per l’integrazione della fattispecie, una singola azione con effetti di lungo periodo e permanenti nel tempo[9].

A prescindere dalla qualificazione giuridica dell’illecito, è chiaro, però, che le disfunzioni del contesto organizzativo comportino un deterioramento delle condizioni lavorative, idoneo a limitare la libertà individuale e la professionalità dei prestatori[10], nonché ad alimentare i dubbi e le perplessità che lo scenario post-pandemico sta portando con sé. Le dimissioni volontarie cui si è assistito negli scorsi mesi hanno messo in luce come le persone non cerchino più soltanto un lavoro, ma anche un clima lavorativo che ne soddisfi i bisogni e ne valorizzi le potenzialità, senza operare discriminazioni; le indagini dimostrano, infatti, come, soprattutto per i giovani, le aziende maggiormente attrattive siano quelle in cui si promuove l’inclusione e in cui si implementano pratiche volte a favorire le pari opportunità e il benessere dei singoli.

Le sfide dell’attraction e della retention nella dinamicità dei mercati odierni impongono, allora, di affrontare le mutate circostanze del mondo del lavoro con occhi diversi, incentrando l’azione sul benessere delle persone che lavorano, ricercando quella tutela della salute e sicurezza, latamente intesa, che oggi tutti inseguono.

 

Mobbing, valutazione del rischio stress lavoro correlato e promozione del benessere individuale – di Antonia Ballottin

 

Le fattispecie di straining, costrittività organizzativa, mobbing e molestia tendono a non essere considerate, a monte, nelle valutazioni dei rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori nei contesti di impiego, né tantomeno, a valle, nelle attività di prevenzione in azienda.

Infatti, le misure di tutela introdotte con il D. Lgs. n. 81/2008, a oggi, non considerano parte dei rischi psicosociali, allorché, all’art. 28, è richiamato il solo Accordo Quadro Europeo sullo stress lavoro correlato, che esclude esplicitamente la violenza, le molestie e lo stress post-traumatico dal novero di condizioni idonee a generare un danno alla persona che lavora[11].  Sul punto, le indicazioni della Commissione consultiva per la valutazione dello stress lavoro-correlato del novembre 2010 (in merito agli artt. 6, c. 8, lett. m-quater e 28, c. 1-bis, D. Lgs. n. 81/2008) indicano, in coerenza con l’Accordo Quadro Europeo, il percorso metodologico per l’identificazione dei fattori di rischio da stress lavoro-correlato, nonché per le successive fasi di pianificazione e realizzazione di misure di eliminazione (o riduzione al minimo) di tale fattore di rischio.

La prevenzione del rischio stress lavoro correlato è centrata sull’organizzazione aziendale e sul gruppo di lavoratori esposti alle medesime condizioni in riferimento alla mansione e/o alla partizione organizzativa di appartenenza. Gli indicatori che permettono di analizzare l’effetto potenziale delle condizioni di stress a cui il gruppo di lavoratori è sottoposto riguardano: l’incremento dei dati relativi a infortuni, assenze per malattia, turnover, procedimenti e sanzioni disciplinari, segnalazioni del medico competente, specifiche e frequenti lamentele formalizzate da parte dei lavoratori.

I fattori che possono favorire l’esposizione allo stress lavoro correlato, se non adeguatamente presidiati, fanno riferimento sia al contenuto (e cioè l’ambiente di lavoro e le attrezzature, i carichi e i ritmi di lavoro, l’orario di lavoro, nonché la corrispondenza tra le competenze dei lavoratori e i requisiti professionali richiesti), sia al contesto lavorativo (il ruolo nell’ambito dell’organizzazione, l’autonomia decisionale e il controllo datoriale, i conflitti interpersonali al lavoro, le prospettive di sviluppo di carriera, l’informazione e la comunicazione).

Nella valutazione e prevenzione del rischio stress lavoro correlato non sembrano, però, trovare riconoscimento (né esplicita tutela) le condizioni individuali (che il lavoratore può trovarsi ad affrontare, ma che non rappresentano le condizioni del gruppo di appartenenza.  Per tale ragione, le fattispecie individuali di costrittività organizzativa, straining, mobbing e molestia non emergeranno dalla valutazione del rischio stress lavoro correlato, se non come evento sentinella (come, per esempio, la presenza di procedimenti e sanzioni disciplinari, le segnalazioni del medico competente, ovvero le specifiche e frequenti lamentele formalizzate). Nel caso in cui il dato individuale fosse rilevabile come evento sentinella e tra i fattori di contesto lavorativo, potrebbe comunque non configurare una condizione di stress lavoro correlato, poiché non sono sufficienti uno o due indicatori per identificare il rischio.

Le indicazioni della Commissione consultiva accertano, infatti, il rischio come conseguente a un calcolo complessivo della presenza di più condizioni sulle tre aree di analisi (Eventi sentinella, contenuto del lavoro, contesto del lavoro). La valutazione approfondita, effettuata attraverso una indagine soggettiva che coinvolge direttamente i lavoratori, consente altresì una maggiore accuratezza nella analisi delle caratteristiche delle relazioni interpersonali nei contesti aziendali e permette di intercettare molte dimensioni di malessere. Tuttavia, si tratta di aspetti sempre riferibili al gruppo di lavoro e analizzate in forma collettiva.

Con il D.M. 14 gennaio 2008 sono state introdotte le “Malattie psichiche e psicosomatiche da disfunzioni dell’organizzazione del lavoro”. Il disturbo dell’adattamento cronico e il disturbo post-traumatico cronico da stress costituiscono due patologie correlabili a condizioni di costrittività organizzativa, a oggi, ancora scarsamente denunciate e riconosciute. La L. n. 4/2021, di ratifica della Convenzione ILO n.190 del 2019,  prevede l’inclusione della violenza e delle molestie nella gestione della salute e della sicurezza sul lavoro e fornisce l’opportunità di focalizzare l’attenzione sul benessere individuale, oltre che organizzativo.

Luoghi di lavoro sani e sicuri per tutti richiedono un nuovo impegno di integrazione tra le misure di

valutazione e gestione dei rischi e una attenzione al benessere che contempli il riconoscimento delle diversità, l’attenzione alle diseguaglianze, il contrasto alle discriminazioni ed alle molestie e violenze.

 

 

Osservazioni finali

Sì, ha ancora senso parlare di mobbing, perché le dinamiche che generano il fenomeno sono latenti nelle organizzazioni e nei rapporti sociali.

Una diversa consapevolezza, però, è maturata nel tempo e il tema del benessere organizzativo pare, oramai, al centro dell’attenzione delle imprese. Da un lato, gli obblighi normativi individuati nella normativa settoriale di riferimento e, dall’altro, la coscienza che un posto di lavoro “salubre” non solo permette una maggiore efficacia lavorativa, ma è altresì maggiormente attrattivo, hanno posto l’attenzione sulla qualità di vita in azienda, in una sorta di continuum tra lavoro e vita privata.

Le dinamiche socio-organizzative che il mobbing e le altre disfunzioni del contesto organizzativo hanno, nel tempo, evidenziato rendono il benessere della persona che lavora una assoluta priorità, da presidiare, in una logica di rimozione e prevenzione degli illeciti.

La pressione che le organizzazioni, in tal senso, ricevono dall’interno (lavoratori e sindacati) e dall’esterno (stakeholders, potenziali lavoratori e società nel suo complesso) enfatizzano i valori della inclusione e della dignità della persona che lavora, richiedendo l’adozione di strategie di prevenzione e di rimozione delle cause di disagio organizzativo.

Tra i molti significati attribuiti al fenomeno della Grandi Dimissione può ricondursi, quindi, anche la scelta (difficile, ma motivata) della ricerca di un contesto di lavoro e di vita che ponga al centro il benessere psicofisico della persona. Invero, pensare a contesti organizzativi scevri di criticità sul piano organizzative e relazionale è pura utopia, ma agire per creare contesti organizzativi in cui ciascuno si impegni a riconoscere i segnali del disagio, del sopruso, della violazione delle norme e, contemporaneamente, intervenga per rimuoverle e per creare le condizioni di benessere, è possibile.

 

[1] Già da almeno un decennio, lo psicologo Leyman (Leymann , Mobbing at work and the development of post-traumatic stress disorders, «European Journal of Work and Organizational Psychology», 5, 1996) aveva iniziato a parlare di mobbing quale condizione di persecuzione psicologica nell’ambiente di lavoro. Nello studio, l’A. aveva ripreso i lavori dell’etologo Lorenz, che osservava negli uccelli il comportamento di aggressione del gruppo nei confronti di un proprio membro al fine di realizzare l’isolamento e l’espulsione di quest’ultimo. Leyman pone l’attenzione non solo sulle singole azioni mobbizzanti, ma sulla continuità e sistematicità delle stesse con l’obiettivo di espellere (fisicamente o psicologicamente, il membro del gruppo dal gruppo stesso.

[2] Nel frattempo, la circolare INAIL n. 71 del 17 dicembre 2003 pose l’accento sull’importanza del contesto organizzativo in merito alla salute del lavoratore, introducendo il concetto di costrittività organizzativa e, distinguendola dal mobbing, soffermandosi sulle disfunzioni organizzative del lavoro (come, per esempio, le incongruenze delle scelte in ambito organizzativo e le particolari condizioni dell’attività lavorativa) idonee a causare nel lavoratore disturbi psichici.

[3] L’ art. 2, c. 1, lett. o), D. Lgs. n. 81/2008 identifica la salute quale «stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o infermità».

[4] In realtà, l’espressione – di derivazione anglofona (dal verbo inglese to mob, letteralmente traducibile con “assalire”) – è stato coniato dagli studiosi dell’etologia, per indicare un adattamento anti-predatore, con cui un gruppo di uccelli si accanisce tumultuosamente verso un altro animale del gruppo, allo scopo di difendere sé stessi, la prole e “lo staus quo”. Riflettendo sulla genesi etimologica del termine, questo è stato ripreso e mediato nell’ambito della psicologia del lavoro, quando si è palesata la necessità di definire il medesimo fenomeno di aggressione sistematica nelle organizzazioni aziendali (tra i primi contributi in argomento, v. per tutti Ege, Mobbing. Cos’è il terrore psicologico sul posto di lavoro, Bologna, 1996).

[5] Sul punto, è interessante richiamare il dibattito giurisprudenziale che vede, da un lato, chi ritiene che siffatte aggressioni debbano essere ripetute con continuità «per un periodo minimo di almeno sei mesi» (Trib. Milano, 29 ottobre 2004) e, dall’altro lato, chi sostiene che si possano altresì qualificare come tali quegli atti persecutori, posti in essere a distanza molto ravvicinata, anche prima dello scadere di questo rigoroso limite temporale (Trib. Cassino, 18 dicembre 2002).

[6] Si segnala come sia stata riconosciuta financo una ulteriore fattispecie (cd. bossing), ravvisabile nei casi in cui i vertici aziendali (in nome e per conto dell’azienda) attuino una strategia di riduzione, ringiovanimento o razionalizzazione del personale finalizzate a estromettere una persona dall’ambiente lavorativo.

[7] Se ne ricava che gli elementi sintomatici della fattispecie – che dovranno essere provati dal lavoratore che lamenti di essere vittima di mobbing – sono: i) la molteplicità di azioni persecutorie, operate in modo sistematico, frequente e prolungato, nonché con intento vessatorio; ii) la lesione della sfera giuridica della vittima; iii) il nesso causale tra il comportamento tenuto dal soggetto attivo e tale lesione; iv) l’elemento soggettivo, ossia il dolo del soggetto agente.

[8] Trib. Bergamo, 20 giugno 2005.

[9] Sul piano degli oneri probatori, la vittima straining dovrà, quindi, dimostrare solamente il fatto, il danno e il nesso causale tra essi intercorrente, risultando esonerato dalla prova dell’intenzionalità lesiva, in quanto, in questo caso, le pressioni del soggetto agente sono già esse stesse rilevanti, a prescindere dalla loro predeterminazione. Preme sottolineare, però, come il fatto che lo straining rappresenti, per tale ragione, un “minus” del mobbing non implica automaticamente che questo comporti una lesione più contenuta dell’integrità psico-fisica della persona che lavora.

[10] Tra le condotte mobbizzanti o stressogene, si annoverano, infatti, anche le ipotesi di costrizioni e dequalificazioni professionali, le quali implicano una inattività lavorativa forzata ovvero una sottrazione di mansioni tali «da comportare un progressivo deperimento del livello globale delle prestazioni del lavoratore, con una sottoutilizzazione delle capacità dallo stesso acquisite e un consequenziale impoverimento della sua professionalità» (così Cass. civ., 20 marzo 2004, n. 5651; sul punto, già Trib. Milano, 24 gennaio 2000 affermò che la professionalità del lavoratore «costituisce un valore, anche e non solo economico» che oscilla in funzione del maggiore o minore suo apprezzamento sul mercato e che «la dequalificazione, oltre agli innegabili riflessi negativi che può produrre nell’equilibrio psico-fisico del lavoratore, colpisce direttamente quel valore economico, del quale determina un decremento che è tanto maggiore quanto più lungo è il periodo di concreta sua assegnazione a mansioni dequalificanti»).

[11] Cfr. art. 2, Accordo interconfederale per il recepimento dell’accordo quadro europeo sullo stress lavoro-correlato

 

 

 

 

 

 

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