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Il mobbing al centro del dibattito sulla Grande Dimissione

Diversity & Inclusion - Massimiliano De Falco - 15 Dicembre 2022

Il fenomeno della cd. Grande dimissione (volontaria) del 2021 – da meglio intendersi quale transizione dei lavoratori da un’occupazione a un’altra – impone di riflettere sul tema del benessere negli ambienti di lavoro, nell’ottica di comprenderne la rilevanza nell’attuale scenario post-pandemico, tanto per le imprese, quanto, e ancor più, per le persone che lavorano.

Oltre alla (ampiamente discussa) questione relativa alle esigenze di una maggiore flessibilità e di una crescente partecipazione organizzativa dei prestatori, un tema che sembra rimanere sullo sfondo del dibattito è quello della tutela della salute e sicurezza nei contesti di impiego. Le persone coinvolte da tali migrazioni, infatti, non sembrano muoversi solamente alla ricerca di condizioni lavorative più favorevoli e appaganti dal punto di vista salariale, ma anche verso ambienti sicuri, che consentano loro una piena realizzazione personale e professionale.

Emerge, allora, la necessità di ripensare l’organizzazione aziendale, ponendo al centro la dignità delle persone ivi inserite, di modo da poter trattenere (e attrarre) queste risorse così preziose e, ora più che mai, indispensabili. I primi passi da compiere per modificare lo status quo consistono nell’individuazione e nella rimozione delle barriere comportamentali che ostano al benessere individuale e collettivo e dalle quali, oggi, si fugge a una velocità mai registrata prima.

Come è noto, il cennato D. Lgs. n. 81/2008 obbliga i datori a valutare e ridurre tutti i rischi che possano incidere sulla «integrità fisica e [sul]la personalità morale» (art. 2087 c.c.) dei propri dipendenti[3], adottando tempestivamente mezzi idonei a prevenire l’insorgenza di potenziali episodi lesivi. Tuttavia, nel novero di tali rischi, quelli psico-sociali sono, sovente, rimasti ai margini delle valutazioni, pur assistendosi, già da tempo e, in particolar modo, nel biennio pandemico, al sorgere di fenomeni generalmente ricondotti sotto le vesti del cd. mobbing.

Tale concetto, inizialmente approfondito dagli studiosi della psicologia del lavoro[4], richiama una situazione di persistente conflittualità, indotta da un’azione (o da una serie di azioni) ripetuta nel tempo, finalizzata a danneggiare la salute o la reputazione della vittima, in un quadro di ostilità continua e preordinata alla sua emarginazione dall’ambiente lavorativo. Benché ancor privo di tipizzazione legislativa, il mobbing è stato riconosciuto anche dalla giurisprudenza nazionale, quale forma di violenza morale o psichica, perpetrata in modo abituale e durevole (o, quantomeno, per un apprezzabile arco temporale[5]), da uno o più aggressori posti in posizione gerarchica di superiorità (cd. mobbing verticale), di parità (cd. mobbing orizzontale), ovvero – anche se meno frequentemente – di inferiorità (cd. mobbing ascendente) rispetto al prestatore cd. mobbizzato, con l’obiettivo di attaccare o isolare lo stesso nel luogo di lavoro[6].

A prescindere dal soggetto attivo del comportamento vessatorio, la peculiarità dell’illecito risiede, quindi, nella premeditazione, ossia nell’intento persecutorio sottostante alle condotte ostili – si noti, anche di per sé lecite se prese in considerazione separatamente – volto alla progressiva esclusione del prestatore e alla sua definitiva espulsione dal contesto di impiego[7].

Diverso è, invece, il caso dello straining, riconosciuto nella prassi giurisprudenziale solo a partire dal 2005[8], il quale si caratterizza per uno stato di stress duraturo e forzato, tale da risultare superiore a quello normalmente collegato alla prestazione lavorativa. In questo caso, infatti, non è necessario un preciso disegno persecutorio, né tantomeno una pluralità di condotte lesive, risultando sufficiente, per l’integrazione della fattispecie, una singola azione con effetti di lungo periodo e permanenti nel tempo[9].

A prescindere dalla qualificazione giuridica dell’illecito, è chiaro, però, che le disfunzioni del contesto organizzativo comportino un deterioramento delle condizioni lavorative, idoneo a limitare la libertà individuale e la professionalità dei prestatori[10], nonché ad alimentare i dubbi e le perplessità che lo scenario post-pandemico sta portando con sé. Le dimissioni volontarie cui si è assistito negli scorsi mesi hanno messo in luce come le persone non cerchino più soltanto un lavoro, ma anche un clima lavorativo che ne soddisfi i bisogni e ne valorizzi le potenzialità, senza operare discriminazioni; le indagini dimostrano, infatti, come, soprattutto per i giovani, le aziende maggiormente attrattive siano quelle in cui si promuove l’inclusione e in cui si implementano pratiche volte a favorire le pari opportunità e il benessere dei singoli.

Le sfide dell’attraction e della retention nella dinamicità dei mercati odierni impongono, allora, di affrontare le mutate circostanze del mondo del lavoro con occhi diversi, incentrando l’azione sul benessere delle persone che lavorano, ricercando quella tutela della salute e sicurezza, latamente intesa, che oggi tutti inseguono.

 

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