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Il difficile equilibrio tra lavoro e maternità. Osservazioni a partire dal rapporto di Save the Children del 2022

Diversity & Inclusion - Claudia Carchio - 21 Maggio 2022

 

Save the Children ha pubblicato lo scorso 4 maggio, il report annuale che fotografa la situazione delle donne e delle madri che lavorano in Italia.

Il rapporto, dal titolo evocativo “Le equilibriste. La maternità in Italia 2022”, analizza l’andamento demografico del nostro Paese, la diffusione e la qualità dei servizi di sostegno all’infanzia, nonché il lavoro delle donne e quello delle madri.

Emergono, come di consueto, le persistenti criticità del nostro mercato del lavoro e dei servizi di welfare per le famiglie, ma soprattutto la necessità, sempre più impellente, di sviluppare misure efficaci, organiche e ben mirate a sostegno della genitorialità, quale unica condizione per garantire l’accesso o la permanenza nel mondo del lavoro, soprattutto della componente femminile.

Sul fronte della demografia, è interessante notare come il rapporto evidenzi un continuo declino dei tassi di natalità, sottolineando le conseguenze di tale fenomeno sulla tenuta del sistema di welfare e di quello sociale.

Da anni, i dati dell’Istat denunciano un costante invecchiamento della popolazione, cui consegue una riduzione della popolazione in età lavorativa. Nel 2021, le stime provvisorie Istat evidenziano un nuovo record negativo delle nascite – il minimo storico dall’Unità d’Italia-, che calano al di sotto della soglia delle 400 mila, con una diminuzione dell’1,3% rispetto al 2020 e di quasi il 31% rispetto al 2008.

Da oltre 35 anni il numero medio di figli per donna è sotto 1,5 (attualmente la media nazionale è di 1,25, con una grande variabilità regionale: dallo 0,99 della Sardegna all’1,57 del Trentino-Alto Adige), attestandosi quindi ad un livello molto inferiore ai 2 che consentirebbe un adeguato equilibrio tra le generazioni.

La conseguenza del calo delle nascite è una riduzione della platea di donne in età fertile e, quindi, delle potenziali madri.

Guardando poi al totale della popolazione, si nota come l’incidenza delle classi più giovani si assottiglia, mentre aumenta quella delle classi più anziane. L’età media della popolazione tocca i 46,2 anni, ed aumenta anche l’età media al parto delle donne, che raggiunge, a livello medio nazionale, i 32,4 anni.

Come osservato da alcuni studiosi (cfr. A. Rosina, F. Luppi, B. Arpino, Changes in fertility plans during the Covid-19 pandemic in Italy: the role of occupation and income vulnerabilit, SocArXiv Papers, aprile 2021) è proprio nei periodi di grande incertezza economica, come quello che stiamo attraversando a causa dalla crisi globale innescata dalla pandemia, dalla questione climatica e dai conflitti bellici, che le persone, sfiduciate dall’idea di poter fronte ad impegni di ampio respiro, adottano atteggiamenti prudenziali e tendono a posticipare le decisioni importanti della vita – come lasciare la casa dei genitori, acquistare o affittare un appartamento, sposarsi o avere figli.

L’incertezza economica, soprattutto ove si registri in un mercato del lavoro come quello italiano, caratterizzato da frammentarietà, precarietà e criticità nell’inserimento lavorativo e nella stabilizzazione, ostacola la realizzazione dei piani familiari delle giovani coppia. A risentirne sono soprattutto i giovani e le donne, sempre più restii a investire sulla pianificazione a lungo termine e, quindi, anche sulla genitorialità.

Su un altro versante, un grande ostacolo per i nuclei familiari, soprattutto ove siano presenti bambini piccoli, è rappresentato dalla difficile conciliazione tra vita professionale e familiare. L’assenza o carenza di politiche pubbliche per la conciliazione impone il ricorso al welfare familiare, il cui pilastro è sostenuto dai nonni, e soprattutto dalle nonne, finendo così per replicarsi, in qualunque fascia di età, il medesimo fenomeno che vede affidare prevalentemente alle donne i compiti di cura domestica in senso ampio (i dati Istat segnalano che, nei casi in cui i genitori siano entrambi occupati, i nonni si prendono cura dei più piccoli nel 60,4% dei casi, quando il bambino ha fino a 2 anni di età, nel 61,3% quando il bambino ha da 3 a 5 anni e nel 47,1% se più grande; Audizione di Linda Laura Sabbadini, Direttore della Direzione centrale per gli studi e la valorizzazione tematica nell’area delle statistiche sociali e demografiche, alla Camera dei Deputati, “Misure a sostegno della partecipazione delle donne al mercato del lavoro e per la conciliazione delle esigenze di vita e lavoro, AA.C. 522, 615, 1320, 1345, 1675,1732, 1925”, 26 febbraio 2020).

In questo contesto, il lavoro delle donne risente non solo degli effetti del complessivo divario di genere, esacerbato dalla crisi pandemica, ma colpisce soprattutto le madri occupate.

La presenza di figli ha un effetto rilevante sulla partecipazione delle donne al mercato del lavoro, giacché su di esse che ricade maggiormente il dilemma su come conciliare lavoro e tempo di vita.

Tra le ragioni che ostano al raggiungimento di tale obiettivo, fondamentale è la ripartizione del lavoro domestico e di cura all’interno della famiglia, ancora squilibrata a svantaggio delle donne.

Un diretto portato di tale situazione si evince dai dati sui tassi di occupazione che, ove disaggregati per genere, arrivano, nel 2020, al 77,2% per gli uomini e al 66,2% per le donne. Ciò significa che, seppur in diminuzione rispetto a 10 anni fa, ancora nel 2020, il divario occupazionale di genere era di ben 11 punti percentuali a sfavore delle donne.

Molti sono i fattori che contribuiscono ad alimentare il divario occupazionale tra i generi (ruoli sociali stereotipati, discriminazioni, segregazione professionale), ma ciò che si evince è che le donne, nel mondo del lavoro, sono “le ultime ad entrare, le prime ad uscire” (CNEL, Relazione di sintesi ai sensi dell’art. 19 del Regolamento degli Organi del CNEL sulla consultazione pubblica sulla parità di genere, 28 ottobre 2021).

Questa sconfortante sintesi della condizione professionale delle donne si aggrava quando l’attenzione si concentra sulle lavoratrici madri, le cui scelte professionali sono ancor più difficili, con ricadute sul loro futuro lavorativo ed economico, sulla loro autonomia e indipendenza, sulle loro opportunità future.

Carenza di servizi, pregiudizi sul luogo di lavoro, difficoltà strutturali di un contesto sociale che non supporta sufficientemente le lavoratrici madri e fa sì che le donne, nel 2021, si trovino ancora in una situazione di forte squilibrio, con un distacco di 30 punti percentuali rispetto ai lavoratori padri e un divario che cresce ancor di più quando i figli in famiglia sono in giovane età (il tasso di occupazione dei padri cresce all’aumentare del numero di figli minorenni presenti nel nucleo, mentre quello delle madri diminuisce).

La penalizzazione delle donne, in termini di occupazione e salario, non è presente però solo dopo la nascita di figli, ma comincia già dalle fasi inziali della carriera, quando cioè è meno probabile che siano madri, data l’età media delle donne al parto. Anche tra le più le giovani (19-30 anni) le traiettorie dei redditi da lavoro sono sistematicamente inferiori per le lavoratrici rispetto ai lavoratori, con un divario che aumenta nel tempo. A 11 anni dal conseguimento del titolo di scuola secondaria superiore, i diplomati maschi hanno un reddito medio superiore del 34% a quello delle diplomate.

Un’altra differenza di genere appare evidente: alle soglie dei 30 anni, gli uomini mostrano una traiettoria salariale ancora in crescita; quella femminile, per contro, si appiattisce, come se il vertice fosse già stato raggiunto.

Una possibile spiegazione a queste sperequazioni nei redditi, secondo gli studiosi, potrebbe risiedere nella diversa tipologia di diploma, poiché i ragazzi tendono a scegliere percorsi tecnico-professionali che facilitano la transizione scuola-lavoro, ottenendo poi contratti più stabili e salari migliori.

Inoltre, più spesso l’impiego delle donne è part-time (il 28%, a fronte del 12% degli uomini), sicché il gap iniziale si ripercuota nelle fasi di carriera successive quando, ad esempio alla nascita del primo figlio, la coppia si trova a decidere quale dei due genitori debba rinunciare in parte (con il part-time) o del tutto al proprio lavoro. Anche sulla base di un mero calcolo economico, la scelta finisce col ricadere su chi ha un reddito da lavoro inferiore, generando un circolo vizioso che tende ad escludere le donne dal mercato del lavoro.

Un ulteriore fenomeno che denota una forte criticità nel mercato del lavoro in ottica di genere è la prevalenza di dimissioni volontarie rassegnate dalle lavoratrici madri. L’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha pubblicato, anche per il 2020, la relazione annuale sulle convalide delle dimissioni delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri (INL, Relazione annuale sulle convalide delle dimissioni e risoluzioni consensuali delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri, ai sensi dell’art. 55 del Decreto Legislativo 26 marzo 2001, n. 151, settembre 2021). Dai dati emerge come nel periodo dell’emergenza sanitaria, se le cessazioni dal rapporto di lavoro riguardano in prevalenza gli uomini (54-55% del personale interessato), per contro, la proporzione si inverte con riguardo alle dimissioni e risoluzioni consensuali di lavoratrici madri e lavoratori padri: i provvedimenti di convalida interessano lavoratrici madri nel 72,9% dei casi nel 2019 e nel 77,4% dei casi nel 2020.

Tra le motivazioni indicate nelle convalide, quella più frequentemente segnalata continua ad essere la difficoltà di conciliazione della vita professionale con le esigenze di cura dei figli, sia per ragioni legate alla disponibilità dei servizi di cura (quasi il 38% del totale delle motivazioni indicate), che per ragioni di carattere organizzativo correlate al contesto professionale dei genitori (20%). Nel primo caso, a pesare è soprattutto l’assenza di parenti di supporto (27,1%), seguita dall’elevato costo dei servizi di assistenza al neonato (es., asilo nido o babysitter, 8,4%) e il mancato accoglimento al nido (2,1%). Nel secondo caso, a pesare sono soprattutto le motivazioni correlate all’organizzazione e alle condizioni di lavoro particolarmente gravose e/o difficilmente conciliabili con le esigenze di cura del bambino (11,9%), seguite dalla distanza dal luogo di lavoro (4,6%), dall’orario di lavoro (3,3%), dal cambiamento della sede (0,5%) e dalla modifica delle mansioni (0,3%).

Ma ciò che più stupisce è che, sulle oltre 19 mila segnalazioni di difficoltà di conciliazione per motivazioni legate ai servizi di cura, il 98% proviene da donne, mentre sulle oltre 10 mila segnalazioni di difficoltà per motivazioni legate all’organizzazione del lavoro, la quota al femminile si attesta al 96%. Per gli uomini, invece, la motivazione di gran lunga prevalente è il passaggio ad altra azienda. Ulteriore riprova del carico familiare che, nelle scelte lavorative, produce un maggior impatto sulla componente femminile della popolazione.

Alla luce dell’analisi condotta sulla condizione lavorativa delle madri in Italia, il rapporto pone l’accento sulla correlazione tra l’attuale condizione di svantaggio delle donne e in particolare delle madri, oltre che dei genitori tutti, e lo sviluppo del Paese. Rinunciare alle competenze, al talento e alle energie delle donne e non sostenere la natalità sta bloccando la crescita di molti Paesi, tra cui l’Italia. Diversi indicatori e studi sostengono l’importanza delle politiche e degli interventi volti a creare un ambiente più favorevole alle famiglie con bambini, necessario per contemperare le esigenze della genitorialità con quelle dell’ingresso o della permanenza nel mondo del lavoro.

 

 

 

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