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I diritti sociali degli stranieri extra UE al vaglio della Consulta

Giurisprudenza - Carmela Garofalo - 21 Aprile 2022

Il tema della titolarità dei diritti sociali in capo ai cittadini di Paesi Terzi si presenta di estrema attualità come dimostrano i recenti pronunciamenti della Corte Costituzionale che, in questo scorcio iniziale del 2022, ha dovuto affrontare tre questioni importanti che intersecano il tema della possibilità di operare distinzioni per l’accesso ai diritti sociali tra i cittadini degli Stati membri dell’UE e i cittadini di Paesi Terzi e, quindi, dell’estensione del principio di parità di trattamento.

Le citate questioni devono necessariamente essere esaminate in un’ottica multilivello, analizzando sia le norme di diritto nazionale sia quelle del diritto dell’UE e, a volte, financo del diritto internazionale (es. art. 14 della CEDU o la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali).

L’excursus normativo e giurisprudenziale sul tema evidenzia che, nell’attuale quadro normativo multilivello, le eccezioni al principio di parità di trattamento nell’accesso ai diritti sociali tra cittadini dei Paesi dell’UE e cittadini extra UE sono ammesse da parte degli Stati membri solo se:

1) deve essere escluso il ricorso allo strumento dell’interpretazione conforme al diritto dell’Unione Europea per l’univoco contenuto della disciplina nazionale e non sussiste la violazione dell’obbligo della parità di trattamento imposto da norme dell’ordinamento UE contenute in un precetto chiaro, preciso e incondizionato, poiché in tal caso vige il principio di primato del diritto dell’UE che comporta la diretta applicazione delle norme eurounitarie e la disapplicazione di quelle nazionali contrastanti (v. spec. C. cost. n. 67/2022);

2) sono invocabili le deroghe alla parità di trattamento previste espressamente nelle direttive o nei regolamenti UE applicabili (es. dir. 2003/109/CE, dir. 2011/98/UE, reg. n. 883/2004), ma ciò si verifica a condizione che le deroghe previste nel diritto derivato dell’UE vengano interpretate restrittivamente e le stesse siano invocabili solo qualora gli organi competenti nello Stato membro interessato per l’attuazione della direttiva abbiano chiaramente espresso l’intenzione di avvalersene in sede di recepimento (v. da ultimo C. cost. n. 67/2022);

3) non potendosi applicare le ipotesi sub 1 o 2, si ravvisa una loro ragionevole correlazione con la finalità che permea le prestazioni, non essendo ammissibili elementi di distinzione arbitrari nel tessuto normativo;

4) trovando applicazione l’ipotesi sub 3, non si tratti del soddisfacimento di un bisogno primario collegato all’esercizio di un diritto inviolabile della persona.

Nei casi in cui non si verificano tali quattro ipotesi l’illegittima restrizione dei benefici contrasta con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione al diritto europeo secondario e all’art. 34 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE (Carta di Nizza), e con gli artt. 2, 3, 31, 32, 34, 38 Cost.

All’interno di questa cornice possono essere analizzati nel dettaglio i recenti interventi della Consulta sul tema in trattazione.

Con la sentenza del 25.1.2022 n. 19, la Corte ha deciso su una questione sollevata dal Tribunale di Bergamo concernente la legittimità costituzionale dell’art. 2, co. 1, lett. a), n. 1), d.l. n. 4/2019  conv. in l. n. 26/2019 che, fra i diversi requisiti necessari per l’ottenimento del reddito di cittadinanza (di seguito Rdc), richiede agli stranieri il «possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo».

Deve rammentarsi che il permesso di soggiorno di lungo periodo è concesso qualora ricorra una serie di presupposti che testimoniano la relativa stabilità della presenza sul territorio, e il suo regime si colloca nella logica di una ragionevole prospettiva di integrazione del destinatario nella comunità ospitante.

Più precisamente, in base all’art. 9, co, 1 e 2-bis, d.lgs. n. 286/1998 (di seguito T.U. sull’immigrazione), esso può essere chiesto in presenza di quattro requisiti: a) «possesso, da almeno cinque anni, di un permesso di soggiorno in corso di validità»; b) «disponibilità di un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale»; c) «alloggio idoneo»; d) «superamento, da parte del richiedente, di un test di conoscenza della lingua italiana».

La Corte ha evidenziato come «rispetto al precedente istituto del reddito di inclusione (…) il reddito di cittadinanza si caratterizza per una spiccata finalizzazione all’inserimento lavorativo e per un più stringente meccanismo della condizionalità, cioè per un’accentuazione degli impegni assunti dai beneficiari. Inoltre, rispetto al reddito di inclusione il reddito di cittadinanza è destinato a una platea più ampia di beneficiari, in quanto è prevista una soglia economica d’accesso più alta (art. 2, comma 1, lettera b). Per altro verso, come visto, il d.l. n. 4 del 2019, come convertito, ha previsto un forte allungamento del periodo necessario di residenza in Italia (da due a dieci anni)».

Pertanto il Rdc non è una semplice misura di contrasto alla povertà, ma persegue diversi e più articolati obiettivi di politica attiva del lavoro e di integrazione sociale.

Poiché il suo orizzonte temporale non è di breve periodo (18 mesi, con possibilità di rinnovo) e il risultato perseguito è l’inclusione sociale e lavorativa, la titolarità del diritto di soggiornare stabilmente in Italia non è un requisito privo di collegamento con la ragion d’essere del beneficio previsto; ne consegue che non irragionevolmente il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, ha destinato la misura agli stranieri soggiornanti in Italia a tempo indeterminato.

La conclusione di non fondatezza così raggiunta non esclude che resta compito della Repubblica, in attuazione dei principi costituzionali di cui agli artt. 2,3 e 38, primo comma, Cost., garantire, apprestando le necessarie misure, il diritto di ogni individuo alla «sopravvivenza dignitosa» e al «minimo vitale», ma che tuttavia nemmeno il rilievo costituzionale di tale compito legittima la Corte stessa a “convertire” verso questo obiettivo una misura cui il legislatore ha assegnato finalità prevalentemente diverse, e rispetto alla quale, il contestato requisito del permesso di lungo periodo non risulta irragionevole.

Con la sentenza del 11.1.2022 n. 34 la Corte ha affrontato, invece, il giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3, co.1, lett. a), n. 1), d.lgs. n. 147/2017 che, fra i diversi requisiti necessari per l’ottenimento del reddito di inclusione (di seguito ReI), richiedeva agli stranieri il «possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo», in riferimento agli artt. 2, 3, 31, 38, 117 della Costituzione, nonché in relazione all’art. 14 della CEDU, e agli artt. 20, 21, 33 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE)

La Corte ha dichiarato non fondate le censure sollevate dal Tribunale di Bergamo in primis, richiamando il suo recente precedente n. 19/2022 (si legge a tal proposito: “Nonostante le differenze che il reddito di inclusione presenta rispetto al reddito di cittadinanza – il quale in effetti si connota per una più spiccata finalizzazione all’inserimento lavorativo, oltre che per un maggior peso degli impegni in capo ai beneficiari e una più alta soglia economica d’accesso – i due istituti hanno in comune le caratteristiche che questa Corte ha valorizzato nella sentenza n. 19 del 2022 per pervenire alla conclusione della non fondatezza delle questioni che le erano state sottoposte.  La medesima conclusione raggiunta deve essere confermata, per le stesse ragioni, in relazione al (precedente) istituto del reddito di inclusione”).

Secondo la Corte, non è fondata neppure la questione sollevata per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 14 CEDU.

Per supportare questa conclusione, vengono richiamati alcuni precedenti della Consulta sulla conformità dell’art. 80, co. 19, l. n. 388/2000 (là dove subordinava l’accesso a determinate provvidenze al possesso della carta di soggiorno) all’art. 14 CEDU.

In particolare nella sentenza n. 187/2010 ( e successivamente nelle sentenze n. 329/2011 e n. 50/2019) si è osservato che ciò che assume valore dirimente è «accertare se, alla luce della configurazione normativa e della funzione sociale che è chiamato a svolgere nel sistema, lo specifico “assegno” che viene qui in discorso integri o meno un rimedio destinato a consentire il concreto soddisfacimento dei “bisogni primari” inerenti alla stessa sfera di tutela della persona umana, che è compito della Repubblica promuovere e salvaguardare; rimedio costituente, dunque, un diritto fondamentale perché garanzia per la stessa sopravvivenza del soggetto».

Sicché, ove si versi in tema di provvidenza destinata a far fronte al “sostentamento” della persona, qualsiasi discrimine tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato, fondato su requisiti diversi dalle condizioni soggettive, finirebbe per risultare in contrasto con il principio sancito dall’art. 14 CEDU, avuto riguardo alla relativa lettura che è stata in più circostanze offerta dalla Corte di Strasburgo.

In questa prospettiva, le conclusioni sopra raggiunte sulle caratteristiche del ReI – che non si esaurisce in una provvidenza assistenziale volta a soddisfare un bisogno primario dell’individuo, ma persegue più ampi obiettivi di inclusione sociale e lavorativa – hanno condotto la Consulta a ritenere non fondata la questione sollevata con riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 14 CEDU.

La Corte, infine esamina la questione sollevata in via subordinata, con riferimento all’art. 3, primo comma, Cost. Il giudice a quo ha ritenuto che, anche qualora il ReI fosse considerato «prestazione esterna al nucleo dei bisogni essenziali» della persona, la disposizione censurata sarebbe comunque costituzionalmente illegittima per l’assenza di una ragionevole correlazione tra il requisito del permesso di soggiorno di lungo periodo e le situazioni di bisogno in vista delle quali la prestazione è prevista.

Nemmeno tale questione è stata ritenuta fondata, giacché il raffronto fra il requisito prescritto e le finalità perseguite dalla misura non conduce a conclusioni di irragionevolezza della scelta operata dal legislatore nell’esercizio della sua discrezionalità. Anche in questo caso, sono state riproposte le considerazioni già svolte nella sentenza n. 19/2022 in merito al Rdc. In particolare la ragionevole correlazione tra il requisito fissato (il permesso di soggiorno di lungo periodo) dalla norma censurata e la ratio del ReI  discende dalla circostanza che tale provvidenza non si risolve in un mero sussidio economico, ma costituisce una misura più articolata, comportante anche l’assunzione di precisi impegni dei beneficiari, diretta a immettere il nucleo familiare beneficiario in un «percorso volto al superamento della condizione di povertà, all’inserimento o reinserimento lavorativo e all’inclusione sociale» (art. 6, co. 2, lett. a, d.lgs. n. 147/2017).

Va considerato, inoltre, che la durata del beneficio economico poteva arrivare a 18 mesi, con possibilità di rinnovo per un periodo di 12 mesi (art. 4, co. 5). Peraltro, la durata del progetto poteva eccedere la durata del beneficio economico (art. 6, co. 7).  L’orizzonte temporale della misura non era dunque di breve periodo alla stregua sia della durata del beneficio, sia del risultato perseguito.

Gli obiettivi dell’intervento implicavano, infatti, una complessa operazione di inclusione sociale e lavorativa, che il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, non irragionevolmente ha destinato agli stranieri soggiornanti in Italia a tempo indeterminato.

In questa prospettiva di lungo o medio termine del ReI, la titolarità del diritto di soggiornare stabilmente in Italia, a dire della Consulta, non si presenta come un requisito privo di collegamento con la ratio della misura concessa, sicché la scelta di escludere gli stranieri regolarmente soggiornanti, ma pur sempre privi di un consolidato radicamento nel territorio, non può essere giudicata esorbitante rispetto ai confini della ragionevolezza.

Infine con la sentenza del 11.1.2022 n. 54 la Corte ha affrontato le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, co. 125, l.  n. 190/2014 (legge di stabilità per il 2015) sull’assegno di natalità per i figli nati o adottati dall’ 1.1.2014 al 31.12.2017 e delle disposizioni successive che hanno rifinanziato la misura fino al 31.12.2021, nonché dell’art. 74 d.lgs. n. 151/2001, sollevate dalla Corte di Cassazione, sezione lavoro, con diverse ordinanze tutte del 17 giugno 2019.

L’epilogo del giudizio è stato quello della dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni citate nella parte in cui escludono dalla concessione rispettivamente dell’assegno di natalità e dell’assegno di maternità le cittadine e i cittadini di Paesi terzi che sono stati ammessi in Italia a fini lavorativi, a norma del diritto dell’UE o nazionale, e le cittadine e i cittadini di Paesi terzi ammessi in Italia a fini diversi dall’attività lavorativa a norma del diritto dell’UE o nazionale ai quali è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del Reg.(CE) n. 1030/2002 del 13 giugno 2002, che istituisce un modello uniforme per i permessi di soggiorno rilasciati a cittadini di Paesi terzi.

Va subito evidenziato che la Corte costituzionale ha interpellato la CGUE circa la riconducibilità dell’assegno di natalità e dell’assegno di maternità alla tutela sancita dall’art. 34 CDFUE e al connesso principio di parità di trattamento nel settore della sicurezza sociale; la CGUE  con la sentenza 2 settembre 2021 (nella causa C-350/2021, O. D. e altri), ha risposto affermativamente ai quesiti pregiudiziali formulati dalla Corte e ha riconosciuto che entrambe le provvidenze rientrano nell’ambito di applicazione del diritto alla parità di trattamento, in base all’art. 12 della direttiva 2011/98/UE, che concretizza l’art. 34 CDFUE, specificamente invocato come parametro dal giudice a quo.

Il principio di parità di trattamento nel settore della sicurezza sociale, nei termini delineati dalla CDFUE e dal diritto derivato e poi ribaditi dalla CGUE nella sopra richiamata sentenza, si raccorda ai principi consacrati dagli artt. 3 e 31 Cost., allo scopo di promuovere una più ampia ed efficace integrazione dei cittadini dei Paesi terzi.

Sicchè la tutela dei valori primari della maternità e dell’infanzia, tra loro inscindibilmente connessi (art. 31 Cost.), non tollera distinzioni arbitrarie e irragionevoli.

Seppure è vero che spetta alla discrezionalità del legislatore il compito di individuare i beneficiari delle prestazioni sociali, tenendo conto del limite delle risorse disponibili, tale individuazione, nondimeno, è vincolata al rispetto del canone di ragionevolezza. È dunque consentita l’introduzione di requisiti selettivi, a patto che obbediscano a una causa normativa adeguata e siano sorretti da una giustificazione razionale e trasparente. Questa giustificazione deve essere indagata alla luce delle caratteristiche della singola provvidenza e delle finalità che ne condizionano il riconoscimento e ne delimitano la ratio.

Nel caso specifico l’assegno di natalità e l’assegno di maternità sovvengono a una peculiare situazione di bisogno che si riconnette alla nascita di un bambino o al suo ingresso in una famiglia adottiva. Entrambe le provvidenze, perciò, si prefiggono di concorrere a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art. 3, secondo comma, Cost.), e, in particolare, rappresentano attuazione dell’art. 31 Cost., che impegna la Repubblica ad agevolare con misure economiche ed altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose, e a proteggere la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo.

La Consulta, inoltre, rimarca che le odierne misure di sostegno al nucleo familiare e alla madre, indirizzate anche alla famiglia adottiva, assolvono una finalità preminente di tutela del minore, che si affianca alla tutela della madre, in armonia con il disegno costituzionale che colloca in un orizzonte comune di speciale adeguata protezione, sia la madre, sia il bambino.

Fatte queste premesse, la Consulta ha ritenuto che, nel condizionare il riconoscimento dell’assegno di natalità e dell’assegno di maternità alla titolarità di un permesso di soggiorno in corso di validità da almeno cinque anni, al possesso di un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale e alla disponibilità di un alloggio idoneo, il legislatore ha fissato requisiti privi di ogni attinenza con lo stato di bisogno che le prestazioni in esame si prefiggono di fronteggiare.

Nell’introdurre presupposti reddituali stringenti per il riconoscimento di misure di sostegno alle famiglie più bisognose, le disposizioni censurate istituiscono per i soli cittadini di Paesi terzi un sistema irragionevolmente più gravoso, che travalica la pur legittima finalità di accordare i benefici dello stato sociale a coloro che vantino un soggiorno regolare e non episodico sul territorio della nazione.

Un siffatto criterio selettivo nega adeguata tutela a coloro che siano legittimamente presenti sul territorio nazionale e siano tuttavia sprovvisti dei requisiti di reddito prescritti per il rilascio del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo.

Un sistema così congegnato pregiudica proprio i lavoratori che versano in condizioni di bisogno più pressante.

L’analisi delle recenti pronunce della Consulta, evidenziano la rilevanza delle questioni sottese all’argomento trattato e il difficile bilanciamento tra: 1) la limitatezza delle risorse disponibili e quindi la sostenibilità economica delle misure adottate; 2) gli obiettivi sottesi alle politiche sociali intraprese e quindi la ratio delle misure adottate; 3) l’estensione soggettiva dei diritti sociali e quindi il campo di applicazione soggettivo delle misure.

Tuttavia, utilizzando le stesse parole espresse nella sentenza n. 54/2022, la Corte Costituzionale ha il compito, nonostante la discrezionalità che compete al legislatore nel definire le condizioni di accesso alle misure di assistenza sociale, di vagliare la conformità a Costituzione delle scelte di volta in volta compiute e, specie in un quadro che vede interagire molteplici fonti, di assicurare una tutela sistemica, e non frazionata, dei diritti presidiati dalla Costituzione, anche in sinergia con la Carta di Nizza, e di valutare il bilanciamento attuato dal legislatore, in una prospettiva di massima espansione delle garanzie.

Sullo sfondo resta il tema di una Costituzione “lavorista”, che ha scelto di tutelare il povero in quanto lavoratore (art. 36) o in quanto inabile (art. 38) e che sembra non contenere una norma sul contrasto alla povertà in quanto tale. Ma che certamente è sensibile e vincolante nel riconoscere uno ius existentiae in termini di uguaglianza (artt. 2 e 3) indipendentemente dalla nazionalità e dalla mobilità delle persone.

Di conseguenza, qualsiasi intervento di welfare deve soggiacere ai canoni di uguaglianza e di ragionevolezza. I due requisiti dell’anzianità di residenza e del permesso di lungo soggiorno non sembrano davvero in grado di superare questo vaglio.

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