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Gravidanza e incarico (revocabile?) da parte della p.a.

Giurisprudenza - Anna Piovesana, Anna Zilli - 19 Luglio 2023

 

Anche nel 2023 una gravidanza può costare il posto di lavoro. Incredibilmente, nella p.a.!

Questi i fatti: una lavoratrice medica psichiatra sottoscriveva con la ASL un contratto a tempo determinato, finalizzato alla sostituzione di un collega assente con diritto alla conservazione del posto. Poco dopo l’assunzione, la dottoressa comunicava alla ASL di essere in strato di gravidanza. Considerato che l’ art. 7 d.lgs. 151/2001 vieta alla lavoratrice, durante tutta la gravidanza e fino sette mesi dopo il parto, di prestare determinate attività, quali quelle connesse all’assistenza e alla cura dei malati psichici, la ASL disponeva l’annullamento della determina dirigenziale di nomina della dottoressa e del conseguente contratto di lavoro.

La lavoratrice impugnava giudizialmente il recesso intimatole, ma rimaneva soccombente in primo e in secondo grado. Proponeva, quindi, ricorso per Cassazione, censurando la sentenza sotto plurimi profili.

La Cassazione ha ritenuto i motivi di impugnazione del tutto infondati, sulla scorta delle seguenti argomentazioni.

Secondo la Corte, nel caso di specie, il contratto di lavoro sottoscritto tra la P.A. e la ricorrente era viziato ab origine da nullità ex art. 1418, c. 2, c.c.. Ribadiva, infatti, il Supremo Collegio che, ai sensi dell’ art. 7 d.lgs. 151/2000, durante la gravidanza e fino sette mesi dopo il parto, vi è un assoluto divieto per la lavoratrice di prestare determinate attività lavorative, tra cui quelle di “assistenza e cura degli infermi nei sanatori e nei reparti … per malattie nervose e mentali”.

Considerato che, nel caso di specie, la lavoratrice era stata assunta a termine proprio per sostituire un medico psichiatra del Centro salute mentale, era evidente che la stessa non avrebbe potuto prendere servizio, né lavorare per tutto il periodo contrattuale. Conseguentemente, secondo gli Ermellini, nel caso in esame era ravvisabile un difetto originale e radicale del contratto, inquadrabile come una sostanziale impossibilità giuridica dell’oggetto contrattuale (la prestazione non poteva essere resa) e, al contempo, una illiceità della causa in concreto (perché l’attuazione di quello scambio si sarebbe posta in contrasto con il divieto di legge), entrambe fattispecie destinate ad integrare la nullità ex art. 1418 , comma 2 c.c.

Per tali ragioni, quindi, secondo la Corte, la P.A. ben aveva fatto ad impedire alla lavoratrice di iniziare il lavoro e rifiutare l’attuazione del contratto.

Per sgomberare il campo da possibili equivoci, la Cassazione proseguiva precisando che, nel caso di specie, non ricorreva un’ipotesi di annullabilità del contratto (ex art. 1427 c.c.) per vizio del consenso della ASL, alla quale la lavoratrice aveva taciuto, in sede di stipula contrattuale, il fatto di essere in gravidanza. Infatti, il vizio del consenso avrebbe presupposto che sulla lavoratrice incombesse un obbligo di denunziare al datore il proprio stato, ma tale obbligo non poteva dirsi sussistente, come ribadito da diversi precedenti di legittimità (Cass., 6 luglio 2002, n. 9864).

Secondo i Giudici, nel caso di specie, non si poneva nemmeno una questione di disparità di trattamento tra generi o di tutelare delle chance della lavoratrice gestante.

L’unico dato rilevante, nella fattispecie in esame, era il dato oggettivo che la prestazione lavorativa non poteva essere resa in forza di un divieto assoluto di legge e tale circostanza costituiva un difetto genetico che invalidava radicalmente il contratto. Sulla scorta di tali argomentazioni, la Cassazione ha rigettato il ricorso, confermando la pronuncia di seconde cure.

In casi come quello oggetto di commento, la nullità non riveste una funzione sanzionatoria di un illegittimo comportamento del lavoratore, ma assume un ruolo di tutela del diritto alla salute fisica e psichica e alla sicurezza della lavoratrice e del nascituro, beni questi, garantiti anche da norme costituzionali (in primis gli artt. 32 e 37, comma 1 Cost.), che vanno protetti, anche a discapito dell’esecuzione del contratto.

Se puoi questa protezione si rivela un boomerang e costa il posto alla lavoratrice, davvero si può solo dire “pazienza”?

Da un lato, vi è certamente l’interesse della p.a. a ricoprire il posto, per un incarico a termine. E oggettivamente la tempistica (31.01 incarico, 08.02 certificato medico di gravidanza) ha il suo peso.

Ma nella analisi della questione di diritto, dobbiamo chiederci: quid se il certificato fosse stato prodotto quindici giorni o un mese dopo?

La p.a. avrebbe potuto ancora far valere i principi a cui si è fatto riferimento, in tema di nullità della causa? Da quando e per quanto tempo?

Si tratta di una vicenda borderline destinata a far discutere.

Per approfondire

Cass. ord. 16785/2023

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