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Giù la maschera! La subordinazione digitale dei ciclo-fattorini

Giurisprudenza - Giuseppe Antonio Recchia - 10 Dicembre 2020

 

Non poteva non suscitare larga eco la prima sentenza italiana che qualifica il rapporto di lavoro di un ciclo-fattorino addetto alla consegna di merci, cibi e bevande a domicilio come subordinato: i commenti si sono subito divisi tra chi l’ha salutata come “storica” e chi invece ha prospettato il rischio di una trasformazione dei rider in impiegati “digitali” costretti a timbrare il cartellino.

La controversia ha riguardato il rapporto, formalmente un contratto d’opera, tra la società che opera in Italia sotto il marchio Glovo ed un suo fattorino: nell’osservarne le concrete modalità di svolgimento, il Tribunale del lavoro di Palermo vi ha ravvisato gli estremi di una vera e propria subordinazione, condannando dunque il datore di lavoro non solo al pagamento delle differenze retributive derivanti dal contratto collettivo nazionale applicato al proprio personale ma anche alla reintegrazione del rider, parificando la disconnessione e la mancata riattivazione dell’account a un licenziamento orale e per fatti concludenti.

Le 51 pagine della decisione depositata lo scorso 24 novembre spostano certamente in avanti, e di molto, le possibilità di inquadramento giuridico di una categoria di lavoratori della gig economy, la cui vulnerabilità e dipendenza socioeconomica ha faticato sin qui a trovare adeguato riconoscimento in punto di diritto.

Invero, l’emanazione della l. n. 128/2019, che ha appositamente dedicato ai lavoratori che tramite piattaforme effettuano consegne nel contesto urbano norme su sicurezza, privacy e compenso, e più ancora la sentenza della Cassazione n. 1663/2020 sul caso Foodora hanno dato l’impressione di voler incanalare la qualificazione (e la protezione) di questi lavoratori alternativamente verso la piena autonomia (assistita dalle tutele minimali approntate dal governo giallo-rosso) ovvero verso la collaborazione etero-organizzata, e dunque sempre autonoma, ma assoggettata, con incerti confini, alla disciplina del lavoro subordinato (art. 2, d.lgs. n. 81/2015).

In altre parole, i rider, anche quando simili a lavoratori subordinati “tradizionali”, rischiano di restare comunque distanziati in ragione della loro autonomia “in fase genetica” (come l’ha chiamata la Cassazione), ovvero di quella libertà di obbligarsi o meno alla prestazione di lavoro organizzata dalle piattaforme.

Al netto delle tante, forse troppe, suggestioni e argomentazioni giuridiche utilizzate nel testo, un primo pregio della pronuncia del Tribunale di lavoro di Palermo è quello di svelare come si tratti di una libertà più teorica che effettiva. La scelta dei riders di collocarsi nei diversi turni disponibili viene fortemente ridimensionata dal punteggio di eccellenza che ogni singolo lavoratore realizza, calcolato su una serie di criteri, che includono non solo la valutazione ricevuta dai clienti che ordinano la consegna e dai ristoranti che la preparano, ma anche la quantità di lavoro effettuato nei momenti di maggiore flusso (la cd. “alta domanda”). I rider “eccellenti” scelgono prima, gli altri dopo.

In tal modo, però, il circolo virtuoso che garantisce l’efficienza del servizio di consegna – in qualunque momento parta un ordine, il cliente sa che verrà soddisfatto nei tempi assicurati dalla applicazione digitale – appare in realtà viziato dal fatto che siano proprio i ciclo-fattorini a pagarne il prezzo: quanto meno si è oggi disponibili alle regole della piattaforma, tanto meno si potrà scegliere domani quando, e addirittura se, essere disponibili. Lo slogan roule quand tu veux (pedala quando vuoi), usato anche di recente dalla massiccia campagna di ingaggio di una delle multinazionali del food delivery, suona quasi ironica.

Anche sotto il profilo del concreto svolgimento del rapporto di lavoro, la decisione è particolarmente importante perché descrive in maniera assai efficace la pervasiva presenza dell’algoritmo utilizzato dalla piattaforma nel lavoro dei ciclo-fattorini.

È l’algoritmo che, controllando il posizionamento del rider nell’ambito urbano di competenza e verificando che la carica del suo cellulare sia superiore ad una determinata soglia (20%), determina la possibilità di ricevere ordini di consegna e dunque distribuisce il lavoro.

È l’algoritmo che organizza il lavoro di consegna, indicando il percorso ritenuto ottimale e comunque valido ai fini del calcolo kilometrico che determina la parte del compenso che si aggiunge a quello previsto per ogni consegna. È l’algoritmo che controlla il rispetto di tutti gli adempimenti che vanno dal ritiro alla consegna della merce ordinata.

È l’algoritmo, infine, che commina (in maniera diretta e indiretta) penalità legate agli scostamenti dai comportamenti previsti, che comportano dalla retrocessione nel punteggio sino alla disconnessione dalla piattaforma.

Se, come da sempre si insegna, la distinzione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo non sta nell’attività di lavoro che viene dedotta nel contratto, ma nel vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro (v. da ultimo, Cass. civile, sez. lav., 2 ottobre 2020, n. 21194 e Cass. civile, sez. lav., 26 giugno 2020, n. 12871), il caso del rider siciliano offre numerosi spunti di riflessione su quello che si presenta come un vero e proprio inserimento nella organizzazione imprenditoriale mediante l’assoggettamento a poteri esercitati, in maniera apparentemente impersonale, attraverso uno smartphone. Parafrasando uno dei primi articoli sul tema, il capo non è tanto l’algoritmo, ma l’impresa che si avvale di avanzati dispositivi tecnologici che consentono di intensificare il lavoro e di estrarne il maggior valore possibile.

Anche sotto questo profilo, la sentenza di Palermo è assai eloquente: così come le indagini della Procura penale di Milano su Uber Eats concluse lo scorso ottobre hanno fatto luce su un sistema di reclutamento e sfruttamento del lavoro, in particolare dei migranti richiedenti asilo, qui spicca il dato di un lavoro prestato per oltre cinquanta o sessanta ore alla settimana, e spesso per tutti i giorni della settimana. A conferma che la facilità di essere reclutati si paga con la impossibilità di essere “insubordinati” o comunque poco efficienti e a dispetto dell’immagine, sempre più recessiva, del lavoro mediante piattaforma digitale come mero “lavoretto”.

Il tutto, almeno sino ad oggi, in un quadro di regole cui le imprese hanno cercato di sottrarsi, dichiarandosi come una “piazza virtuale” nel quale i soggetti fisici si incontrano, o sfuggendo alla corretta qualificazione delle fattispecie di lavoro utilizzate.

Qualcosa sta però cambiando. Just Eat ha annunciato di voler assumere a partire dal prossimo anno i circa tremila ciclo-fattorini che attualmente vi collaborano. Mymenu, che lo scorso anno aveva firmato la Carta dei diritti fondamentali del lavoro digitale nel contesto urbano di Bologna, si è mossa verso il riconoscimento di maggiori tutele, mediante l’applicazione dei minimi salariali indicati nel CCNL della logistica.

La decisione di Palermo sottolinea, però, anche il valore ineludibile delle norme che regolano il lavoro e assegnano tutele: nella perdurante distinzione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo, stare da una parte o dall’altra della staccionata comporta effetti assai diversi. Nel caso dei rider, come di molti altri lavori legati all’economia digitale, quella staccionata può diventare una parete assai ripida e scivolosa. Ciò che non va dimenticato – anche quando i nuovi processi produttivi finiscono per incidere sullo stesso concetto di lavoro – è l’implicazione della persona del lavoratore nella relazione contrattuale e l’immanente necessità della sua protezione.

 

Giuseppe Antonio Recchia è Ricercatore in Diritto del lavoro dell’Università di Bari

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