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Far lavorare in ambiente “stressogeno” viola l’obbligo di sicurezza

Giurisprudenza - Anna Piovesana - 17 Aprile 2023

 

Un dipendente amministrativo dell’Università adiva il Tribunale di Cosenza, lamentando di essere stato illegittimamente trasferito e, successivamente, di aver subito una progressiva totale privazione di mansioni, oltreché plurimi pretestuosi procedimenti disciplinari. Assumeva che le illegittime condotte subite, configuranti demansionamento e mobbing, gli avevano procurato un danno alla salute, alla professionalità e alla vita di relazione.

Il Tribunale accoglieva parzialmente il ricorso, riconoscendo il demansionamento lamentato e condannando l’Università alla reintegra del lavoratore nelle mansioni corrispondenti all’inquadramento posseduto e al risarcimento del danno non patrimoniale. Rigettava, invece, la domanda di riconoscimento del mobbing, ritenendolo insussistente. In appello la sentenza veniva confermata.

Il lavoratore proponeva ricorso per Cassazione assumendo, tra l’altro, «la violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. e 2043 c.c. in relazione all’art. 2059 c.c.» con riferimento all’esclusione della fattispecie del mobbing. Rilevava il ricorrente che il trasferimento intimatogli era pretestuoso ed aveva determinato una totale privazione delle mansioni e di aver subito plurime, quanto illegittime, contestazioni disciplinari. A fronte di tale quadro, secondo il lavoratore, la Corte territoriale avrebbe dovuto ritenere la sussistenza di un comportamento datoriale violativo dell’obbligo di tutela di cui all’art. 2087 c.c. realizzatosi attraverso una condotta sistematica e protratta nel tempo che aveva finito per assumere le forme di una prevaricazione o persecuzione psicologica, con conseguenti mortificazione morale ed emarginazione tipiche del mobbing.

La Corte di Cassazione accoglieva il ricorso. Il Collegio ricordava anzitutto che è configurabile mobbing lavorativo ove ricorre l’elemento obiettivo, integrato da plurimi e continuativi comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio nei confronti della vittima (Cass. 21 maggio 2018, n. 12437; Cass. 10 novembre 2017, n. 26684), che si configura a prescindere dalla illegittimità intrinseca di ciascun comportamento, in quanto la concreta connotazione intenzionale colora in senso illecito anche condotte altrimenti astrattamente legittime.

Precisava poi la Corte che è illegittimo il comportamento del datore di lavoro che consente, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente “stressogeno”, fonte di danno alla salute dei lavoratori (negli stessi termini Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291). È, infatti, sempre configurabile responsabilità datoriale a fronte di un mero inadempimento – anche solo colposo – che si ponga in nesso causale con un danno alla salute del dipendente.

Nel caso in esame, secondo la Cassazione, la Corte territoriale, aveva accertato un grave e protratto demansionamento causativo di danno alla salute e, dunque, un inadempimento datoriale ad obblighi di appropriatezza nella gestione del personale, già, di per sé rilevante ai sensi dell’articolo 2087 c.c.. Muovendo da ciò, il giudice di seconde cure avrebbe dovuto valutare anche gli altri episodi denunciati dal ricorrente (es. esistenza di plurime contestazioni disciplinari), nel quadro generale della vicenda lavorativa, al fine di verificare la complessiva legittimità o meno dei comportamenti datoriali anche rispetto all’obbligo (del pari riconducibile all’articolo 2087 c.c.) di evitare lo svolgimento della prestazione con modalità ed in un contesto indebitamente “stressogeno”. Il giudice d’appello, in sostanza, avrebbe dovuto indagare l’esistenza di una situazione lavorativa conflittuale di stress forzato, nella quale il ricorrente avesse subito azioni ostili tali da provocare una modificazione in negativo, costante e permanente, della situazione lavorativa, atta ad incidere sul suo diritto alla salute, costituzionalmente tutelato. Il datore di lavoro è infatti tenuto ad evitare, non solo il demansionamento e la privazione delle mansioni, ma anche situazioni “stressogene” che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, possa presuntivamente ricondurre a questa forma di danno, anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio (v. Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291).

Sulla scorta di tali considerazioni, la Suprema Corte ha cassato con rinvio la sentenza di secondo grado.

Le conclusioni a cui giunge la pronuncia in esame sono assolutamente condivisibili. La sentenza si pone nel solco dalla costante giurisprudenza secondo cui «l’art. 2087 c.c. non si esaurisce nell’adozione del mantenimento perfettamente funzionale di misure di tipo igienico-sanitarie o anti-infortunistiche, ma attiene anche – e soprattutto – alla predisposizione di misure atte a preservare i lavoratori dalla lesione della loro integrità nell’ambiente di lavoro o in costanza di esso» (Cass. 4 dicembre 2020, n. 27913). Dunque, tale disposizione pone in capo al datore di lavoro l’obbligo di tutelare non solo l’integrità fisica, ma anche quella psicofisica e morale del lavoratore, impedendo che nell’ambiente di lavoro si verifichino situazioni che mettano in pericolo tali beni. La sentenza in commento si segnala soprattutto per aver chiarito che l’obbligo di sicurezza ha contorni ampi, estendendosi, ad avviso della Corte, sino ad includere l’obbligo datoriale di evitare che la prestazione lavorativa si svolga in un ambiente indebitamente “stressogeno”. Secondo la Cassazione, infatti, se in un contesto lavorativo di stress forzato si inseriscono altri comportamenti inadempienti/illegittimi, tale situazione “stressogena” può contribuire ad aggravare il pregiudizio alla personalità e alla salute subito dal lavoratore.

Più in generale, la pronuncia in commento individua in capo al datore di lavoro, ex art. 2087 c.c., un obbligo di prevedere ogni possibile conseguenza negativa della mancanza di equilibrio tra organizzazione di lavoro e personale impiegato.

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