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Discriminazioni e stato di bisogno: un altro caso di caporalato in agricoltura

Attualità - Nicola Deleonardis - 25 Maggio 2022

 

L’ennesimo caso di intermediazione illecita (c.d. caporalato) e sfruttamento del lavoro, all’attenzione della cronaca, dimostra ancora una volta – con buona pace dei mistificatori – che il fenomeno è ben lungi dall’essere confinato nella zona meridionale della penisola italiana (v. già F. Carchedi, Il lavoro indecente nel settore agricolo. Casi di studio territoriali, in Osservatorio Placido Rizzotto (a cura di), Agromafie e caporalato. Quarto rapporto, Bibliotheka edizioni, 2018, p. 135-312), costituendo un vero e proprio sistema criminale (v. M. Omizzolo, Sotto padrone. Uomini, donne e caporali nell’agromafia italiana, Feltrinelli, 2019).

Questa volta, teatro delle vicende sono alcune aree della Maremma toscana, dove l’inchiesta della Guardia di Finanza ha portato alla luce lo sfruttamento in agricoltura di centinaia di lavoratrici e lavoratori.

Dall’inchiesta emerge che i soggetti maggiormente sfruttati siano le persone non comunitarie e le donne. Il dato certamente non stupisce (v. N. Deleonardis, Il lavoro forzato e il lavoro gravemente sfruttato, in Osservatorio Placido Rizzotto (a cura di), Agromafie e caporalato. Terzo rapporto, Ediesse, 2016, pp. 91-102) e conferma ulteriormente come lo sfruttamento in agricoltura si nutra di discriminazione ed esclusione dal mercato del lavoro.

Nonostante le discriminazioni per razza, origine etnica e per genere siano vietate da direttive comunitarie (rispettivamente la Direttiva 2000/43 e la Direttiva 2006/54) e da norme nazionali (D.lgs. n. 215/2003 e D.lgs. n. 198/2006), la difficoltà (soprattutto) delle donne e delle persone non comunitarie di accedere al lavoro favorisce il manifestarsi di uno “stato di bisogno” che li costringe ad accettare qualsiasi condizione e situazione lavorativa.

È utile rammentare che l’art. 603 bis c.p., come modificato dalla L. n. 199/2016, individua nell’ “approfittamento” dello “stato di bisogno” da parte dell’intermediario e del datore di lavoro quella condotta premeditata necessaria a configurare l’intermediazione illecita, da un lato, e lo sfruttamento lavorativo, dall’altro lato. Nello specifico, la norma recupera il concetto di stato di bisogno come aggravante del reato di usura (art. 644 c.p.), che ricorre quando “la persona si trovi in una condizione anche provvisoria di effettiva mancanza di mezzi idonei a sopperire a esigenze definibili come primarie, cioè relative a beni comunemente considerati come essenziali per chiunque”, “tale da compromettere fortemente la libertà contrattuale” (v. la Circolare dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro n. 5/2019).

È evidente come la discriminazione giochi un ruolo fondamentale: escluse dal mercato del lavoro per diverse ragioni, le persone sono costrette ad accettare condizioni lavorative degradanti pur di fronteggiare lo “stato di bisogno” in cui versano.

Nel caso delle persone provenienti da paesi extra-Ue, a una parte di esse regolarmente soggiornanti sul territorio italiano se ne affianca un’ampia fetta di irregolari. Nonostante le aspre politiche migratorie introdotte dal Decreto Salvini (D.L. n.113 del 2018, conv. in L. n.132/2018, sul punto v. D. Mancini, I “Decreti Salvini”. I lavoratori agricoli stranieri diventano più vulnerabili, in Osservatorio Placido Rizzotto (a cura di), Agromafie e caporalato. Quinto rapporto, Ediesse, Futura, 2020, pp.27- 46) siano state temperate dal recente Decreto Lamorgese (L. n. 130/2020), che ha introdotto un nuovo permesso di protezione speciale, permane l’alto tasso di irregolarità delle persone che provengono da paesi extra-UE, per le quali l’ottenimento di un regolare posto di lavoro diventa quasi irrealizzabile. Ancora oggi, infatti, è in vigore la Legge Bossi-Fini (L. n. 189/2002), che alimenta un circolo vizioso per cui l’irregolarità sul territorio italiano non può essere sanata se non attraverso un regolare contratto di lavoro (c.d. contratto di soggiorno) e, viceversa, un contratto di lavoro non può essere stipulato senza un regolare permesso di soggiorno.

Non muta la situazione se guardiamo alla manodopera agricola femminile (su cui si rinvia a N. Deleonardis, Sfruttamento in agricoltura e precarietà: una questione (anche) di genere), spesso vittima di discriminazione multifattoriale: l’essere donna e immigrata non comunitaria incide fortemente sulle pratiche di marginalizzazione e sfruttamento del lavoro (non di rado accompagnato da sfruttamento della prostituzione). Soprattutto le donne extra-Ue, infatti, sono costrette a mettersi nelle mani di intermediari e datori di lavoro, per i quali la condizione di irregolarità e marginalità sociale è la condizione sufficiente (ma non necessaria) per adottare condotte illecite, come il ricatto e la minaccia, e comprimere i costi del lavoro.

Nel caso qui in esame, le indagini della Guardia di Finanza non sembra lascino spazio a dubbi circa la configurazione dei reati di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.

È essenziale ricordare che l’art. 603 bis c.p., introdotto dall’art. 12, D.L. n. 138/2011, conv. in L. n. 148/2011, e modificato dall’art. 1 L. n. 199/2016, fissa una serie di indici: basta che ricorra uno solo di essi per materializzare la fattispecie di sfruttamento del lavoro. Ci si riferisce a quel trattamento, non solo economico, praticato nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori, che impedisce loro di vivere dignitosamente.

L’art. 1 della L. n. 199/2016 individua in negativo le caratteristiche fondamentali che qualificano un “sano rapporto di lavoro”.

Secondo la disposizione citata, «costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di uno o più delle seguenti condizioni:

1) la reiterata corresponsione   di   retribuzioni   in   modo palesemente   difforme   dai   contratti   collettivi   nazionali   o territoriali   stipulati   dalle   organizzazioni   sindacali    più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;

2) la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie;

3) la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro;

4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti».

Confrontando gli indici citati con le concrete condizioni lavorative applicate ai rapporti di lavoro posti in essere con i soggetti coinvolti nella vicenda in esame, ne emerge una situazione di forte sfruttamento. Il salario orario di circa 2,50 euro è, infatti, “palesemente difforme” rispetto a quanto previsto dalla contrattazione collettiva di settore (cfr. le tabelle 1 e 2 del CCNL per gli operai agricoli e florovivaisti del 19 giugno 2018). Parimenti risultano violate le norme in materia di orario di lavoro (D.lgs. n. 66/2003), a fronte di giornate lavorative di circa 15 ore, così come quelle in materia di sicurezza sul lavoro.

Una menzione speciale merita il punto 4 dell’art.1 (situazioni alloggiative degradanti): secondo le indagini della GdF, infatti, i datori di lavoro avevano predisposto alloggi fatiscenti per i lavoratori che ne potevano usufruire corrispondendo canoni di locazione elevati (circa 500 euro), sottratti successivamente delle retribuzioni mensili.

In conclusione, dunque, è necessaria una modifica sostanziale della normativa vigente che regola l’accesso nel territorio italiano delle persone non comunitarie (T.U. d.lgs. n. 286/1998) , poiché solo attraverso la regolarizzazione delle persone che entrano in Italia e una politica volta a favorire l’emersione del lavoro irregolare (come è avvenuto durante la pandemia da Covid-19, sebbene con risultati non del tutto soddisfacenti, v. art. 103 d.l. n. 34/2020, conv. in l. n. 77/2020) sarà concesso ai lavoratori stranieri di accedere a migliori condizioni di lavoro. In tal modo, dunque, si eviterebbe che i lavoratori extra-UE, in assenza di alternative, si rinvolgano a intermediari e datori di lavoro che fanno leva sulla condizione di irregolarità e sul conseguente “stato di bisogno” per contrarre fortemente i costi del lavoro, ledendo la dignità e i diritti dei lavoratori che sono prima di tutto esseri umani.

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