Diritti LGBTIQ+: la CEDU condanna ancora una volta la Georgia
Una recente sentenza della Corte di Strasburgo ha condannato – ancora una volta – la Georgia al risarcimento dei danni non patrimoniali a favore di alcuni cittadini e due associazioni per i diritti LGBTIQ+ georgiane per violazione degli artt. 3, 10, 11 e 14 della Convenzione Europea dei Diritti umani.
I due ricorsi – trattati congiuntamente dalla Corte – ruotano attorno alla mancata protezione di un gruppo di manifestanti LGBTIQ+ da parte del Governo georgiano durante l’evento organizzato nel centro di Tbilisi, in occasione dell’IDAHO (oggi IDAHOBIT, International Day Against Homophobia, Biphobia, Intersexphobia and Transphobia) del 17 maggio 2013.
Secondo la ricostruzione dei fatti, la programmazione dell’evento IDAHO 2013 nella capitale georgiana comportò la reazione di un gruppo ultra-conservatore di stampo religioso ortodosso, che organizzò una contromanifestazione, o “manifestazione di preghiera”, volta a vietare la “promozione delle minoranze sessuali”. Nonostante il monito dei mass media e le minacce – nemmeno troppo velate – degli ultra-conservatori, il Governo georgiano decise di concedere ai contromanifestanti spazi pubblici in prossimità dell’evento IDAHO, quest’ultimo protetto da un cordone di polizia costruito per evitare un’eventuale aggressione omo-lesbo-transfobica.
Tuttavia, l’attacco si concretizzò ugualmente, come testimoniano numerosi video girati dagli stessi manifestanti per i diritti LGBTIQ+ e da alcuni giornalisti. Dalle immagini è evidente che non solo le autorità opposero una debole resistenza alle aggressioni, ma addirittura avallarono di buon grado la rottura del cordone di sicurezza da parte dei componenti del gruppo ultra-conservatore. La strada prescelta dalla polizia, dunque, fu quella di far disperdere i manifestanti dell’evento IDAHO, tallonati dagli ultraconservatori che brandivano pietre, sgabelli e altri oggetti utili a intimorire e colpire i manifestanti.
Le aggressioni non si conclusero con la vicenda appena descritta, ma proseguirono per tutto l’arco della giornata e nei giorni successivi. Emblematico è il caso di un attivista per i diritti LGBTIQ+ che, riconosciuto da alcuni membri del gruppo omofobo, fu costretto a barricarsi in un supermercato in attesa dell’arrivo della polizia. Anche quest’ultimo episodio corrobora l’ipotesi secondo la quale le condotte della polizia durante l’IDAHO 2013 fossero sorrette da pregiudizi omofobi. Come emerge da ulteriori registrazioni, mentre il poliziotto radeva la barba dell’attivista – al fine di renderlo irriconoscibile agli occhi degli aggressori – non lesinava alcune osservazioni omofobe, chiedendo per giunta “se avesse mai avuto rapporti sessuali con una donna”.
A conclusione della descrizione dei fatti, la Corte ha evidenziato che le indagini condotte a suo tempo dal Governo georgiano non condussero ad alcuna condanna. Il 23 ottobre 2015, infatti, il tribunale di Tbilisi assolse i quattro imputati del reato di cui all’art. 161 del Codice Penale, ossia interferenza illecita nell’esercizio del diritto alla libertà di riunione con il ricorso alla violenza, alla minaccia e all’abuso di potere da parte delle forze dell’ordine. tale assoluzione si basava sulla mancanza di prove sufficienti a dimostrare che la dispersione violenta dei manifestanti IDAHO fosse stata causata dalla condotta connivente della polizia.
Con la decisione del 16 dicembre 2021, la CEDU ha riconosciuto la violazione degli artt. 3, 10 e 11, in combinato disposto con l’art. 14 della Convenzione Europea dei Diritti umani. È essenziale notare che il divieto di sottoporre a trattamenti inumani e degradanti (art. 3) e la libertà di espressione e associazione (artt. 10 e 11) vengono evocati unitamente all’art. 14, che assume il carattere di una clausola che integra le altre disposizioni sostanziali volte a proteggere i diritti della persona.
In altre parole, la discriminazione è strettamente connessa alla violazione dei diritti protetti dalla Convenzione: la condotta che costituisce reato è connotata da un pregiudizio in relazione a una “caratteristica protetta”, in questo caso l’orientamento sessuale e l’identità di genere (v. Risoluzione del Parlamento Europeo del 24 maggio 2012 sulla lotta all’omofobia in Europa; cfr., inoltre, L. Goisis, Sulla riforma dei diritti contro l’uguaglianza, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, 2020, 3, p. 1519 ss.).
La Corte perviene alla condanna del Governo georgiano seguendo un duplice iter argomentativo.
La CEDU ha riconosciuto la violazione dell’art. 3 sia con riferimento all’aspetto sostanziale, per essere stati i ricorrenti sottoposti a trattamenti inumani e degradanti, sia con riferimento all’aspetto procedurale, per non aver condotto lo Stato convenuto un’indagine effettiva a tal riguardo. La Corte ha rilevato in primis una violazione dell’art. 3 in considerazione della mancata protezione dei manifestanti da parte della polizia, la quale, al contrario, ha avallato l’attacco verbale e fisico che essi hanno subito. Prive di utilità le rimostranze del Governo georgiano, trinceratosi dietro il pretesto che l’utilizzo da parte della polizia delle misure antisommossa avrebbe ulteriormente aggravato la situazione, accentuandone la violenza. Infatti, al di là della compiacenza delle autorità di pubblica sicurezza, la Corte ha tenuto conto della superficialità dell’indagine governativa, nonostante i video, che invece hanno certamente facilitato la decisione della Corte di Strasburgo.
Il riconoscimento della violazione dell’art. 3, come rilevato dalla stessa Corte, non è affatto sproporzionato. In generale, i maltrattamenti che cadono nell’ambito di applicazione dell’art. 3 dovrebbero comportare lesioni fisiche effettive o intense sofferenze fisiche o mentali. Tuttavia, la qualificazione del concetto di condotte degradanti ben oltrepassa tali aspetti, potendo riguardare anche quei comportamenti che umiliano o sviliscono un individuo a tal punto da lederne la dignità (cfr. C. Fatta, Hate Crimes all’esame della Corte di Strasburgo: l’obbligo degli Stati di proteggere i membri della comunità LGBTI, in Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 2016, 10, 1330 ss.). In questo caso, le violenze verbali e gli insulti espressi con odio fondato sul pregiudizio, non possono essere considerate condotte innocue. Si tratta, infatti, di veri e propri crimini d’odio che pongono la vittima dinanzi a un rischio immediato e inaspettato, aggravato dalla mancata protezione della polizia.
Sempre in considerazione della protezione garantita dall’art. 3, la Corte ha rilevato che all’esito delle indagini non vi fu menzione dell’aggravante discriminatoria, che avrebbe potuto comportare un maggior rigore delle eventuali condanne (v. la Raccomandazione CM/Rec(2010)5 del Comitato dei ministri, del marzo 2010). Tale rigore sarebbe stato conveniente in ragione delle aggressioni omofobe avvenute già durante l’IDAHO dell’anno precedente, sebbene meno violente (vedi Identoba a altri c. Georgia, no. 73235/12, 12 maggio 2015), e delle insinuazioni omofobe del poliziotto “incaricato di proteggere” il cittadino barricatosi nel supermercato. Inoltre, ci si sarebbero aspettate indagini più rigorose, che ruotassero attorno al fattore discriminatorio, anche in considerazione della documentata ostilità verso la Comunità LGBTIQ+ non solo nel Paese teatro dell’episodio (vedi, da ultimo, Aghdgomelashvili e Japaridze v. Georgia, n. 7224/11, 8 ottobre 2020), ma in tutta l’Europa orientale (vedi, Primov e altri c. Russia, n. 17391/06, 12 giugno 2014).
La sentenza, dunque, consolida l’orientamento che impone agli Stati l’obbligo positivo e il dovere di proteggere gli esponenti della comunità LGBTIQ+, volto a reprimere trattamenti degradanti subiti in ragione del proprio orientamento sessuale (v. nuovamente Identoba a altri c. Georgia, n. 73235/12, 12 maggio 2015).
Per quanto riguarda, invece, il secondo iter argomentativo, la Corte ha rilevato la violazione degli artt. 10 e 11 della Convenzione, ritendendo esigue le misure poste a garanzia della libertà di espressione e associazione da parte delle autorità, nonostante fossero “pienamente consapevoli della realtà e dell’entità del rischio” che correvano i manifestanti. Al contrario, la dispersione dei manifestanti dell’IDAHO fu razionalmente pianificata al fine di interrompere il flashmob pacifico e sedare, così, la “fame di diritti” delle persone LGBTIQ+ georgiane.
D’altronde, come traspare dai rinvii inseriti nel presente commento, è sistematica la lesione dei diritti delle persone LGBTIQ+ soprattutto – ma non solo – nell’Europa orientale, sia nella dimensione privata, sia nella dimensione pubblica.
Se Sparta piange, Atene di certo non ride (in generale, in Europa v. già T. Hammarberg, Discrimination on Grounds of Sexual Orientation and Gender Identity in Europe, Council of Europe, 2011, p. 5 ss., 7.) L’Italia, infatti, non brilla per la protezione delle persone LGBTiQ+. L’infelice sorte parlamentare toccata al Ddl in materia di omo-lesbo-transfobia, condita dagli applausi e dagli inni di gioia di una parte della classe politica del Paese (Yàdad De Guerre, Gli applausi e l’ingiuria) manifesta un’avversione ben radicata verso le persone LGBTIQ+ nella realtà sociale italiana. Forse vale la pena rimarcare che la sanzione penale dei crimini d’odio a sfondo omo-lesbo-transfobico potrebbe rappresentare uno degli strumenti di elezione per il rafforzamento della loro dignità sociale per troppo tempo calpestata (in generale, v. A. Apostoli, La dignità sociale come orizzonte della uguaglianza nell’ordinamento costituzionale, in Costituzionalismo.it, 2019, 3).