Dall’uomo nuovo alle persone libere
Le aggressioni omofobiche, che continuamente balzano agli onori della cronaca, ci ricordano il ritardo del nostro Paese in tema di tutela ed educazione al rispetto dei diritti fondamentali. Si ricordi l’ultima notizia, risalente a qualche giorno fa, di un episodio di grave omofobia in un condominio di Torino (“Siete un cancro per il palazzo”, coppia gay denuncia i condòmini, Ansa, 6 ottobre 2021).
Di recente, a sollecitare ancora di più una riflessione in tal senso è intervenuta la Risoluzione2021/2679 UE, con la quale il Parlamento europeo ha spronato gli Stati membri a dare rilevanza giuridica ai crimini d’odio (anche) verso le persone LGBTIQ+, inserendoli tra i “reati UE” di cui all’art. 83 par. 1 TFUE. Nello stesso tempo, gli Stati membri sono stati spronati a promuovere politiche antidiscriminatorie, soprattutto alla luce di quanto sta succedendo non solo in Ungheria, ma anche in Polonia e nei Paesi baltici.
Pur tenendo presente questo quadro d’insieme di respiro europeo, vogliamo riflettere sulle radici culturali che tali condotte vessatorie e violente hanno nel nostro Paese, ricordandone la matrice fascista.
In tal senso, può essere utile partire da un saggio, ormai di oltre 15 anni fa, di Lorenzo Benadusi, Il nemico dell’uomo nuovo. L’omosessualità nell’esperimento totalitario fascista (2005).
La strategia di occultamento e di persecuzione dell’omosessualità durante il regime ha fortemente contribuito ad alimentare quel pregiudizio verso l’omosessualità che ancora oggi contraddistingue la società italiana. L’omosessualità era considerata una minaccia per la nuova collettività che si intendeva costruire, eretta sull’ideale dell’uomo nuovo fascista, emblema di virilità e salute.
Omofobia e misoginia erano complementari nella retorica del regime: tutti e due servivano a proteggere e rafforzare la superiorità dell’uomo fascista.
L’accanimento nei confronti delle persone omosessuali non fu solo una prerogativa del regime. Si registra una particolare convergenza di interessi con le gerarchie cattoliche in una spirale di conflitto/consenso rispetto alle politiche da adottare. Nonostante, infatti, fossero diversi i motivi d’attrito tra il Vaticano e il regime, soprattutto in materia di educazione giovanile [v. L. Ceci, Il papa non deve parlare. Chiesa, fascismo e guerra d’Etiopia (2010)], entrambi puntavano a sopprimere, o quantomeno limitare e occultare, le condotte omosessuali. Nel 1930, il Papa Pio XI emanò l’enciclica Casti connubii, con la quale condannava la rilassatezza dei costumi e auspicava un maggior controllo degli impulsi sessuali, atti da orientare esclusivamente in funzione procreatrice. La campagna contro l’omosessualità, dunque, trovava un valido alleato nella Chiesa che – come ha notato Michel Foucault – mediante il sacramento della confessione è stata capace di esercitare un controllo sui comportamenti sessuali dei fedeli [P. Lucà Trombetta, La confessione della lussuria. Definizione e controllo del piacere nel cattolicesimo (1996)]. Tale relazione tra movimenti cattolici e estremismo di destra – sia pure in maniera carsica – si è cementata nel tempo, dando vita a una retorica ferocemente avversa ai movimenti di liberazione sessuale [M. Prearo, L’ipotesi neocattolica: Politologia dei movimenti anti-gender (2020); S. Garbagnoli, M. Prearo, La crociata «anti-gender». Dal Vaticano alle manif pour tous, (2017) e Y. De Guerre, Francesco: il papa, le unioni civili e i contesti, in Sovversioni, (2020); Id., Sodom: Il mondo disattento alle cose delicate, e Sodom [II]: Testi e contesti, in Playing the gender card (2016)].
Le strategie, più o meno esplicite, volte a reprimere l’omosessualità si estendono anche all’ambito giuridico. Il che sembra in controtendenza rispetto alla constatazione che nella Riforma del Codice penale del 1930, il regime non aveva previsto come reato l’omosessualità.
Non si trattò beninteso di una svista, bensì del risultato di scelte ben precise. Confrontando il testo del Codice Penale (1930) con una delle sue prime versioni prodotte durante i lavori preparatori (1926), si nota come dal testo definitivo sia scomparsa una disposizione presente in quella bozza che puniva esplicitamente l’omosessualità nel caso costituisse pubblico scandalo, ex art. 528 c.p. In questa proposta, l’autore di tale condotta era passibile di una condanna alla reclusione da 1 a 3 anni. La ragione della previsione di tale reato fu individuata nella preservazione della specie, essendo l’atto sessuale non finalizzato alla riproduzione. La disposizione, però, successivamente fu eliminata, in coerenza con la tradizione giuridica precedente. Tuttavia, questo non comportò certo l’irrilevanza penale dell’omosessualità ricondotta sul piano giurisprudenziale all’interno delle condotte contemplate dall’art. 527 c.p., quelle contro le offese al pudore: gli atti osceni per intenderci [v. D. Borrillo, Omofobia. Storia e critica di un pregiudizio, trad. it. Fabeni (2009)].
Tale scelta non testimoniava un cambiamento nel (dis)orientamento delle politiche del regime, ma rispondeva a una chiara strategia: punire esplicitamente le condotte omossessuali avrebbe significato ammettere l’esistenza dell’”inversione” e della “perversione” nello Stato fascista. Agire altrimenti avrebbe messo a repentaglio la stessa immagine dell’uomo nuovo.
Nonostante il principio di tassatività sancito dall’art. 1 c.p., il regime si è distinto per una repressione rigorosa delle persone omosessuali soprattutto, ma non solo, con la misura del confino [v. G. Goretti, T. Giartosio, La città e l’isola: omosessuali al confino nell’Italia fascista (2006)]. Si calcola che in Italia dal 1938 al 1943 siano stati circa 300 i confinati per pederastia sulle isole di Favignana, San Domino, Ustica e altre [v. Circolo Pink (a cura di), Le ragioni di un silenzio: la persecuzione degli omosessuali durante il nazismo e il fascismo (2002)], poiché rei di aver “commesso o manifestato il deliberato proposito di commettere atti diretti a sovvertire violentemente gli ordinamenti nazionali” (ex art. 184 T.U. di Pubblica Sicurezza del 1926).
Il confino di polizia era una misura amministrativa che prescindeva dalla commissione di un reato: non c’era alcun processo che esigesse il ricorso alle prove di un fatto delittuoso, bensì un giudizio sommario sull’indole dell’imputato, che diveniva l’oggetto stesso della repressione.
Ecco le premesse per un’azione persecutoria non tanto nei confronti dell’atto omosessuale, ma verso le stesse persone omosessuali, soprattutto quelle vittima della “patologica deformazione” che si esprime in un’espressione di genere femminile. Qui sta il punto che caratterizza ancora oggi tanta parte della retorica anti-omosessuale: il problema era ed è la trasgressione di un canone di virilità misurabile dall’aspetto esteriore e dai comportamenti sociali. Finché la persona omosessuale non avesse trasgredito il modello virile in pubblico, ci si poteva (e ci si può) disinteressare di lui: tutto rimane all’interno della sfera privata ed è quindi indifferente per il diritto.
Discorso non dissimile è quello che attiene alle donne omosessuali, mentre resta marginale la transessualità, in assenza di un concetto non ancora scientificamente enucleato. Proprio come nel caso del modello maschile tradito dall’espressione di genere femminile, anche le donne lesbiche rappresentavano un nemico da combattere, non solo in quanto prive di quella femminilità “connaturata alla donna”, ma soprattutto in ragione del rifiuto a svolgere la funzione procreatrice e di “custode del focolare”, secondo una gerarchica e patriarcale distinzione dei ruoli di genere [P. Guazzo, I. Rieder, V. Scuderi (a cura di), R/esistenze lesbiche nell’Europa nazifascista (2010)].
Nel solco di questa linea di progressiva marginalizzazione si inserivano anche le politiche discriminatorie sul lavoro. L’omosessualità si configurava non di rado come causa giustificatrice di ius variandi verso il basso, ossia di demansionamento del lavoratore, e in alcuni casi finanche di licenziamento.
Dalla pubblica derisione alle discriminazioni sul lavoro, dalla detenzione nei manicomi, carceri o sulle isole di confino sino alla deportazione nei campi di sterminio [J. Le Bitoux, Triangolo rosa: la memoria rimossa delle persecuzioni omosessuali (2013)]: le persone omosessuali vissero in epoca fascista in silenzio; ogni esistenza fu una vera e propria vittoriosa resistenza.
C’è questa storia e queste politiche del ventennio dietro gli episodi di violenza e marginalizzazione che le persone omosessuali subiscono ancora oggi in Italia e che è troppo comodo banalizzare come una forma di sfottò [Cass. Civ., n. 4815/2019 – caso Rana, su cui v. le riflessioni di F. Bilotta, La molestia verbale viola la dignità della persona che lavora, in Responsabilità civile e previdenza, Giuffrè, Milano, 2019, 1880 – 1898]. C’è questa storia e queste politiche del ventennio dietro una parte di quella tradizione cristiana che vede nelle condotte e nelle relazioni omosessuali “le minacce sociali in grado di compromettere l’intera civiltà umana” [Y. De Guerre, World Congress of Families: le radici ideologiche, in Playing the gender card (2019)].
Forse così si riescono meglio a chiarire le difficoltà che il disegno di legge in materia di omo-lesbo-bi-transfobia sta incontrando nelle Aule parlamentari: non fa problemi solo perché costituisce un consistente irrobustimento dello scarno apparato di tutele a favore delle persone LGBTIQ+, percorrendo l’impervia strada del diritto penale (v. artt. 2-3 del Disegno di legge S. 2005); il vero problema sono le “politiche attive antidiscriminatorie”. Da una parte, infatti, promuove iniziative – non obbligatorie – negli istituti scolastici volte a favorire l’accettazione della – o delle – diversità (art. 7 c. 3); dall’altra parte, estende l’ambito delle competenze dell’Ufficio per la promozione della parità di trattamento e la rimozione delle discriminazioni fondate sulla razza o sull’origine etnica (ex art. 7 d.lgs. 9 luglio 2003, n. 215) anche a temi quali omosessualità e identità di genere, abbracciando nuovi obiettivi e funzioni, che spaziano dalle politiche in materia di lavoro all’istruzione, sino all’educazione e alla sicurezza (art. 8).
L’espressione della sessualità rientra nella sfera più intima dell’essere umano. Ce l’hanno ricordato la Corte europea dei diritti umani, la Corte di Giustizia dell’Unione europea, la Corte di Cassazione italiana. In quanto tale, il suo esercizio libero e autonomo rientra tra le libertà che dovremmo difendere più strenuamente. Eppure, dobbiamo prendere atto di quanto pesi la cultura diffusa nel Paese rispetto allo sforzo di rendere effettivi i diritti sanciti dalla Costituzione italiana, il cui primo obiettivo era proprio quello di fondare una società antifascista.