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Comportamento “inurbano” o discriminazione sul luogo di lavoro?

Giurisprudenza - Carmela Garofalo - 25 Luglio 2023

 

Se un dipendente fa battute sull’orientamento sessuale di una collega può essere licenziato per giusta causa?

È questo l’interrogativo a cui ha fornito risposta la Suprema Corte nella recente sentenza n. 7029 del 9 marzo 2023 che ha ritenuto non solo “inurbano”, ma integrante una vera e propria discriminazione sessuale sul luogo di lavoro, il comportamento tenuto da un dipendente di una società di trasporti nei confronti di una collega.

Nello specifico il lavoratore, avendo appreso del recente parto gemellare della collega, le aveva rivolto, in forma dialettale, domande del tipo: “ma perché sei uscita incinta pure tu?”,  “ma perché non sei lesbica tu?” e, quindi, con fare irrisorio, “e come sei uscita incinta?” ed altre frasi. L’episodio era avvenuto alla fermata di un autobus, dove la collega era in attesa di prendere servizio come autista, alla presenza di altre persone. Entrambi erano in divisa e quindi riconoscibili come dipendenti della società; la donna aveva evidenziato il fastidio ed il disagio che tale conversazione le aveva procurato e rivendicato il rispetto per la propria vita privata.

La società, venuta a sapere dell’episodio, licenziava per giusta causa il dipendente (veniva contestato al lavoratore un primo addebito con il quale gli si imputava di aver tenuto un comportamento gravemente lesivo dei principi del Codice etico aziendale e delle regole di civile convivenza; con successivo addebito invece veniva contestato al dipendente di aver rivolto espressioni offensive e minacciose nei confronti del Presidente della Commissione di disciplina).

La Corte di Appello di Bologna, però, relegava l’episodio, pacifico da un punto di vista fattuale, all’ambito di una condotta “sostanzialmente inurbana” (per la inopportunità degli apprezzamenti del lavoratore alla sfera sessuale di una collega) e rilevava che, “comunque, il contegno inurbano o scorretto verso il pubblico” integrante una condotta “necessariamente più grave” di quella tenuta dal dipendente, risultava punito con la sospensione dal servizio e dalla retribuzione dall’art. 42 n. 2 Regolamento Allegato A) R.D. n. 148 del 1931. Il licenziamento, pertanto, risultava sproporzionato rispetto alla gravità degli addebiti contestati con condanna della società, dichiarato risolto il rapporto, a corrispondere all’autista venti mensilità della retribuzione globale di fatto.

Il datore di lavoro adiva, allora, la Suprema Corte contestando le conclusioni a cui erano giunti i giudici di appello nella parte in cui la sentenza impugnata non aveva riconosciuto la giusta causa di recesso in relazione al primo dei due addebiti contestati e aveva configurato come disciplinarmente irrilevante il secondo addebito.

I giudici di legittimità hanno ritenuto non condivisibile il ragionamento decisorio del giudice del reclamo con riguardo al primo addebito alla luce sia della clausola genere di “giusta causa” di licenziamento recata nell’art. 2119 c.c. che richiede di essere concretizzata dall’interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia dei principi costituzionali a difesa della dignità dell’essere umano.

Secondo gli Ermellini la valutazione operata dal giudice di merito nel ricondurre a mero comportamento “inurbano” la condotta del lavoratore, non è conforme ai valori presenti nella realtà sociale ed ai principi dell’ordinamento; il concetto di “inurbano”, infatti, rimanda ad un comportamento contrario soltanto alle regole della buona educazione e degli aspetti formali del vivere civile, laddove il contenuto delle espressioni usate e le ulteriori circostanze di fatto nel quale il comportamento del dipendente deve essere contestualizzato si pongono in contrasto con valori ben più pregnanti, ormai radicati nella coscienza generale ed espressione di principi generali dell’ordinamento.

Non è quindi una semplice questione di buona educazione, ma di rispetto dei principi previsti dalla Costituzione.

Costituisce innegabile portato della evoluzione della società negli ultimi decenni l’acquisizione della consapevolezza del rispetto che merita qualunque scelta di orientamento sessuale e del fatto che essa attiene ad una sfera intima e assolutamente riservata della persona; l’intrusione in tale sfera, effettuata peraltro con modalità di scherno e senza curarsi della presenza di terze persone, non può pertanto essere considerata secondo il “modesto” standard della violazione di regole formali di buona educazione utilizzato dal giudice del reclamo, ma deve essere valutata tenendo conto della centralità che nel disegno della Carta costituzionale assumono i diritti inviolabili dell’uomo (art. 2), il riconoscimento della pari dignità sociale, “senza distinzione di sesso”, il pieno sviluppo della persona umana (art. 3), il lavoro come ambito di esplicazione della personalità dell’individuo (art. 4), oggetto di particolare tutela “in tutte le sue forme ed applicazioni” (art. 35).

Per concludere, la Cassazione ha anche ricordato che il Codice delle Pari opportunità (d.lgs. n. 198/2006)  considera come discriminazioni anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo, soprattutto con riguardo alla posizione di chi si trovi a subire nell’ambito del rapporto di lavoro comportamenti indesiderati per ragioni connesse al sesso.

Tale previsione ben può trovare applicazione al caso vagliato in quanto significativa della volontà del legislatore ordinario di garantire una protezione specifica e differenziata – attraverso il meccanismo dell’assimilazione alla fattispecie della discriminazione- alla posizione di chi si trovi a subire nell’ambito del rapporto di lavoro comportamenti indesiderati per ragioni connesse al sesso. Inoltre, concorre a delineare la scala valoriale di riferimento nell’ integrazione della norma elastica della “giusta causa ” di licenziamento” la generale esigenza di riservatezza relativa a dati sensibili riferibili alla persona, tra i quali quello relativo all’orientamento sessuale, posta dal d.lgs. n. 196/2003.

Alla luce di queste considerazioni e motivazioni, la Corte di legittimità ha cassato con rinvio la sentenza di secondo grado, ordinando alla Corte di Appello di rivedere la sua sentenza, verificando la sussistenza dei presupposti per una giusta causa di licenziamento, alla luce del corretto inquadramento della fattispecie e dei valori di riferimento sopra definiti.

È dunque evidente che la Suprema Corte ha inteso adeguare gli standard valoriali dell’ordinamento entro cui deve essere contestualizzata la nozione di  giusta causa di licenziamento con i principi di non discriminazione, parità del trattamento, dignità della persona e dei diritti fondamentali alla riservatezza delle abitudini sessuali.

La decisione rappresenta un’indubbia vittoria per i diritti inviolabili dell’uomo perché ribadisce un ormai acquisito e consolidato (seppur non sempre applicato) principio di “civiltà” e cioè quello per cui nei contesti lavorativi il “rispetto reciproco” deve rappresentare un “valore sociale”, prima ancora che aziendale, che mette a riparo i lavoratori da qualsiasi minaccia o discriminazione per le proprie scelta di orientamento sessuale provenienti non solo dal datore di lavoro, ma anche dai colleghi.

Per altro verso si è voluto premiare il datore di lavoro che non è rimasto inerme di fronte ad una denuncia di omofobia da parte di un proprio dipendente e ha ritenuto un simile comportamento irreparabilmente lesivo del vincolo fiduciario tanto da giustificare il licenziamento per giusta causa.

Declassare, di contro, tali comportamenti offensivi a semplice “mala” educazione significa non ritenere l’irridente dileggio con ostilità di genere contrario ai valori presenti nella realtà sociale, nonché ai principi del nostro ordinamento.

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