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“Sotto padrone”: leggere il diritto guardando la realtà

Attività della clinica - Fulvio Cucchisi - 30 Marzo 2022

Pensate per un attimo di passare giorni interi, settimane, mesi rinchiusi in una gabbia di quattro metri per quattro, che probabilmente era stata usata un tempo per i maiali. Sopravvivreste chiusi in un tugurio, senza servizi igienici, con poco cibo e acqua, costretti a lavorare sotto le serre per ore, picchiati e impossibilitati a scappare perché il vostro “padrone” vi ha sottratto i documenti? Questa è la storia di Manjeet, un ragazzo indiano, venuto in Italia a cercare fortuna e che, invece, ha trovato quello che, con grande vergogna per un Paese che si dice democratico e civile, si chiama schiavitù. E purtroppo, quello di Manjeet, non è un caso isolato.

Storie come la sua, drammatiche, crude e tremendamente vere vengono descritte dal sociologo Marco Omizzolo nel suo libro “Sotto padrone. Uomini, donne e caporali nell’agromafia italiana” edito da Feltrinelli nel 2019. Storie raccontate grazie a un lavoro di osservazione, di lotta, di inchieste, di denunce e scioperi, durato anni e che tuttora prosegue.
Quello che Omizzolo è riuscito a realizzare è una narrazione su ciò che migliaia di donne e uomini indiani (ma non solo) subiscono quotidianamente nella zona Pontina: lo sfruttamento lavorativo e il caporalato. Esseri umani che vengono disumanizzati, trattati come oggetti, pagati 3-4 euro all’ora e costretti a lavorare 10-12 ore al giorno: questo è l’inferno dello sfruttamento nella campagna pontina.

Il vero punto di forza del libro è l’aver vissuto in prima persona le esperienze che vengono raccontate. Omizzolo, infatti, ricorda di come sia riuscito a stringere legami molto forti con la comunità sikh nella provincia di Latina, studiandone la cultura, lavorando fianco a fianco con i braccianti nelle campagne e “spezzandosi la schiena” con loro, aiutandoli a denunciare gli episodi di sfruttamento, supportandoli con iniziative volte a far conoscere a queste donne e uomini che come noi esistono, che sono titolari di diritti, primo tra tutti quello di essere considerati ed essere trattati come esseri umani.

Il dramma che viene raccontato in “Sotto padrone” è contraddistinto, per essere al meglio compreso, da un’analisi della stessa comunità sikh. È interessante lo sforzo dell’autore di cercare di capirne la cultura, apprenderne le tradizioni, i modi di vivere, i rapporti che si creano all’interno della comunità. E perché questo? Perché anche gli stessi “padroni” utilizzano la conoscenza di questa cultura per colpire i braccianti ancora più nel profondo: per emarginarli dal resto della comunità, per renderli soli e quindi deboli.

Lo studio della cultura sikh ha consentito a Omizzolo di capire come fosse vista dalla comunità stessa la figura del caporale, che con un occhio occidentale non può che sembrarci a prima vista negativa. Ma il punto è proprio questo: domandarsi come mai qualcuno possa consideralo un elemento positivo, o, quanto meno, un punto di rifermento e una persona da ringraziare, un benefattore. E proprio da questa conoscenza che può iniziare un’attività positiva volta a far capire ai braccianti il motivo per cui una tale figura sia aberrante.

Resta, quindi, da chiedersi: che cosa può spingere un giurista a leggere un libro di un sociologo? E come può risultare utile una tale lettura?

Io credo che un operatore del diritto non possa prescindere dalla realtà fenomenica per comprendere a pieno il contenuto delle norme che è tenuto quotidianamente a interpretare e applicare. Avere in mente come concretamente un certo fenomeno si invera può semplificare la comprensione stessa della norma. Inoltre, aiuta anche a elaborare idee per migliorare l’ordinamento stesso, che certamente non può dirsi perfetto.

Tuttavia, ritengo che ci sia un ulteriore motivo per cui un giurista dovrebbe leggere questo libro, ed è forse la ragione più importante per chi ha a che fare con la “Giustizia”. Omizzolo racconta di avvocati, notai, forze dell’ordine che troppo spesso girano la testa dall’altra parte o che addirittura si rendono responsabili insieme ai datori di lavoro e ai caporali dello sfruttamento di queste donne e questi uomini attraverso consulenze, redazione di contratti di lavoro e mancati controlli.

Si tratta di storie di persone private dei propri diritti, costrette a lavorare fino allo sfinimento e vittime, se donne, di molestie sessuali pena il licenziamento. Leggerle ci può aprire la mente e farci capire che non bastano disposizioni penalistiche e lavoristiche per garantire a tutti di vivere in un mondo migliore. Per avere un mondo migliore bisogna, prima di tutto, volerlo e lottare affinché si realizzi.

Anche un “semplice” libro ci può avvicinare all’obiettivo.

 

 

* Fulvio Cucchisi è studente del Corso di Laurea in Giurisprudenza del Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di Udine

 

 

 

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