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Le discriminazioni e il diritto penale: riflessioni dopo una lezione

Attività della clinica - Fulvio Cucchisi - 6 Giugno 2022

 

Anche a fronte del recente dibattito sul D.d.l. Zan, è utile riflettere sul rapporto che intercorre tra le discriminazioni e il diritto penale. Più precisamente, si tratta di capire come lo strumento penale possa essere utilizzato per punire chi discrimina.

Nell’ambito del Titolo XII del Libro secondo del Codice penale, dedicato ai reati contro la persona, al Capo III sui delitti contro la libertà individuale, l’art. 2, comma 1, lett. i), D.Lgs. 1° marzo 2018, n. 21 ha inserito la Sezione I-bis, comprendente gli artt. 604-bis e 604-ter, dedicata ai delitti contro l’eguaglianza. L’art. 604-bis regola il delitto di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa e l’art. 604-ter la circostanza aggravante della finalità discriminatoria, applicabile a qualsiasi reato, salvo quelli puniti con la pena dell’ergastolo.

Necessaria è una premessa: le espressioni “crimini d’odio” e “delitti contro l’eguaglianza”, benché presentino una matrice comune, non sono concetti interscambiabili. Infatti, la prima nozione, che è frutto di un’elaborazione dottrinale, comprende quei comportamenti motivati da un pregiudizio in relazione a una determinata caratteristica personale protetta quale la razza, la religione, l’orientamento sessuale, il genere. Nei c.d. “crimini d’odio” rientrano quei fenomeni che si caratterizzano per due elementi: la commissione di un reato (ad esempio l’omicidio, la violenza sessuale, le lesioni) e pregiudizio “radicato nell’aggressione a una caratteristica specifica personale della vittima” che spinge alla commissione di quel certo reato.

All’interno del genus “crimini d’odio”, vengono fatti rientrare i delitti contro l’eguaglianza di cui agli artt. 604-bis e 604-ter del Codice penale, i quali si caratterizzano per la previsione di alcuni motivi di discriminazione, quali la razza, l’etnia, la nazionalità e la religione.

Dal punto di vista cronologico, in materia è stata fondamentale la legge n. 152/1975 (c.d. “Legge Reale”), che ha introdotto una fattispecie di reato autonomo per sanzionare la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico. Inoltre, ha punito l’incitamento alla discriminazione per motivi razziali o etnici e forme più intense di incitamento alla commissione o direttamente al compimento di atti di violenza o provocazione alla violenza. Infine, l’art.3 della “Legge Reale” ha previsto un delitto associativo consistente nella partecipazione e assistenza ad associazioni od organizzazioni aventi lo scopo di incitare all’odio e alla discriminazione razziale.

In questo primo intervento normativo, veniva considerata solo la discriminazione per motivi etnici, razziale e nazionali, in ossequio alla Convenzione di New York del 1966.

Con la legge n. 205/1993 (c.d. legge Mancino), l’ambito di applicazione dell’art.3 della “Legge Reale” è stato ampliato alle discriminazioni di carattere religioso. Sempre con questo testo normativo si assiste a un primo abbandono di un approccio meramente repressivo: si cominciano ad adottare alcune sanzioni accessorie a carattere rieducativo come, per esempio, l’obbligo per il condannato di prestare attività non retribuita per finalità sociali o di pubblica utilità a favore della collettività. Inoltre, si introduce l’aggravante del reato commesso con finalità di discriminazione per razza, etnia, nazionalità e religione.

La legge n. 85/2006 ha da ultimo modificato l’art. 3 della “Legge Reale”. Infatti, alla precedente condotta di “diffusione” viene sostituita quella di “propaganda” e alla condotta di “incitamento” viene sostituita quella di “istigazione” alla “commissione di atti di discriminazione o a commettere violenza o atti di provocazione per i motivi di discriminazione” indicati dall’articolo in questione.

La giurisprudenza ha ritenuto che vi fosse una sostanziale sovrapponibilità tra propaganda e diffusione (lo stesso vale per la condotta di istigazione e incitamento). La dottrina, invece, ha ritenuto che il concetto di propaganda fosse qualcosa di più circoscritto rispetto alla diffusione. Più di recente la giurisprudenza ha sostenuto che di propaganda si può parlare quando vengono divulgate opinioni idonee a influenzare il comportamento di un numero indeterminato di persone e a raccogliere consensi. Il concetto di propaganda, insomma, ha come caratteristica essenziale la diffusività delle idee presso un numero indeterminato di persone e una concreta idoneità di tale condotta a trovare consensi nel pubblico.

Con il d.lgs.21/2018 queste disposizioni hanno trovato posto all’interno del Codice penale e, in particolare, agli artt. 604-bis e 604-ter.

Oggi, l’art. 604-bis c.p. punisce chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Inoltre, viene punito chi istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziale, etnici, nazionali o religiosi. Infine, viene punito l’associazionismo che ha come scopo l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per i motivi sopra citati.

I delitti contro l’eguaglianza sollevano una serie di questioni dalla cui analisi non ci si può esimere.

Prima di tutto, occorre chiedersi quale sia il bene giuridico tutelato. Nel tempo, le alternative prese in considerazione dalla giurisprudenza sono state: in un primo tempo, l’ordine pubblico (sul punto cfr. Cass., 3591/1993; Trib. Verona n. 2203/2004) e successivamente la dignità e l’eguaglianza dell’individuo (sul punto Cass., n.13234/2007). Nella prima prospettiva, l’individuo veniva tutelato non in quanto tale ma nella misura in cui i comportamenti penalmente rilevanti ponessero problemi per la pace pubblica.

Altro profilo problematico emerge dalla fattispecie associativa di cui al co.2 dell’art.604-bis c.p. La domanda che dottrina e giurisprudenza si sono poste è se, ai fini dell’integrazione del reato di cui all’art.604-bis co.2 c.p., sia necessario che l’associazione presenti un minimo di organizzazione e stabilità oppure se sia sufficiente una pluralità di soggetti che condividano le medesime idee. Ebbene, secondo la giurisprudenza di legittimità qualunque organizzazione può assumere rilievo ai fini dell’integrazione del reato. È la legge, infatti, a riferirsi anche a organizzazioni, movimenti e gruppi e non solo ad associazioni strutturate.

Ma la questione più rilevante attiene al fatto che la sanzione penale opera solo in presenza di condotte discriminatorie tipizzate, anche con riferimento alle caratteristiche personali protette, che sono solo quelle espressamente indicate: razza, etnia, nazionalità e religione.

Tuttavia, il fenomeno discriminatorio oggi interessa anche caratteristiche della persona ulteriori quali, il genere, l’orientamento sessuale, l’identità di genere, la disabilità, tra le altre. Tale più ampia prospettiva non emerge solo da movimenti sociali, ma è evincibile anche da documenti a contenuto normativo di origine europea. Basti pensare alla direttiva n. 29/2012 che introduce norme minime in materia di diritti all’assistenza e protezione delle vittime da reato. Nei consideranda della direttiva, si fa riferimento, oltre, al genere, quale motivo della violenza subita e, quindi, quale motivo di vulnerabilità della vittima, anche all’identità di genere e all’espressione di genere.

Ci sono, inoltre, numerosi atti di soft law, tra cui, su tutti, due risoluzioni sull’omofobia del Parlamento Europeo del 2006 e del 2012 che equiparano l’omofobia al razzismo, alla xenofobia, all’antisemitismo e al sessismo. Il Parlamento Europeo, oltre a invitare la Commissione a rivedere la decisione-quadro del 2008 sul razzismo, suggerendo l’introduzione dell’orientamento sessuale, dell’identità di genere e dell’espressione di genere tra le caratteristiche della persona rilevanti per i reati d’odio, invita anche gli Stati membri ad adottare disposizioni penali in questo senso.

Spinte di questo tipo si rinvengono anche nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo che, similmente al Parlamento Europeo, equipara i crimini d’odio fondati sull’omofobia a quelli fondati sul razzismo e, inoltre, afferma che le condotte omofobiche e transfobiche travalicano i limiti posti alla libertà di espressione (art. 10 CEDU), incoraggiando un approccio proattivo da parte degli Stati aderenti alla CEDU, nel senso, cioè di utilizzare lo strumento penale per reprimere fenomeni di questo tipo.

Molti Paesi europei si sono dotati, quantomeno, di una circostanza aggravante che colpisce comportamenti volti a commettere atti discriminatori per motivi legati all’orientamento sessuale e identità di genere arrivando, in alcuni casi, a delineare una autonoma fattispecie di reato.

L’Italia rientra in quel novero di Paesi che nulla ha ancora fatto in questo campo.

Il D.d.l. Zan, da un punto di vista temporale, è stata l’ultima iniziativa legislativa volta, tra le altre cose, a estendere lo schema di cui all’art.604-bis c.p. all’istigazione alla commissione o commissione diretta di atti discriminatori non violenti fondati su sesso, genere, identità di genere, orientamento sessuale o disabilità. Il disegno di legge, inoltre, prevedeva la stessa estensione per l’istigazione a commettere o per la diretta commissione o per provocare atti di violenza per i cinque motivi poc’anzi esposti. L’estensione si attua anche con riferimento delle condotte associative.

Anche in questo disegno di legge, come nei precedenti, non si è messo mano alla condotta di propaganda per evitare obiezioni relative alla libertà di espressione.

Ora, al netto delle discussioni di tipo ideologico che hanno coinvolto tale disegno di legge, quello che resta è, ancora una volta, una totale incapacità politica di far fronte a un problema reale e attuale. L’Italia non si è ancora dotata di un sistema repressivo di condotte motivate da un sentimento di odio e di sopraffazione nei confronti di chi presenta certe caratteristiche. Non ci sono altre soluzioni se non l’intervento del legislatore per poter punire chi, millantando una superiorità non definita né definibile, realizza condotte tipizzate dall’art.604-bis in forza di caratteristiche diverse da quelle considerate da tale disposizione. E alla luce dell’esperienza europea e convenzionale, non si può che ritenere aberrante un tale stato di cose.

 

 

*Il testo è la sintesi della lezione tenuta dall’Avv. Luca Baron durante il Corso di diritto antidiscriminatorio, presso il Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di Udine. L’autore, studente del corso, ha aggiunto alcune sue conclusive considerazioni personali.

 

 

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