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Caregivers e assistenza domestica: quali tutele per una professione di cui “nessuno si cura”?

Attività della clinica - Massimiano De Falco - 9 Marzo 2023

 

Il contributo intende avviare lo studio sul mercato del lavoro di cura e assistenza, nei confronti del quale le studentesse e gli studenti della Clinica legale di Diritto Antidiscriminatorio di UNIUD si misureranno durante questo percorso formativo, al fine di inquadrare giuridicamente il caregiving (in tutte le sue forme e applicazioni) e comprendere quali siano le tutele riservate dall’ordinamento nazionale alla figura del caregiver. I quattro gruppi di lavoro indagheranno tanto il lavoro di cura prestato in ambito familiare [con particolare attenzione a: 1) la disciplina dei permessi e dei congedi, 2) le forme di flessibilità orientate alla conciliazione vita-lavoro, 3) i contributi e gli incentivi pubblici], quanto il lavoro di cura “professionale” [con particolare riguardo a: 4) il trattamento economico e normativo previsto nei principali CCNL del settore].

Dopo aver chiarito cosa il lavoro di cura sia, come esso possa manifestarsi e chi in concreto se ne occupi, si illustreranno le principali criticità che attanagliano questo mercato (nella sua veste informale e in quella formale), offrendo, altresì, alcuni spunti di riflessione a ciascun Working Group chiamato ad approfondire le specifiche tematiche poc’anzi descritte.

Cosa?

Come anticipato, il primo aspetto da chiarire per un inquadramento giuridico del lavoro di cura attiene alla perimetrazione dei suoi contorni e alla definizione dei suoi contenuti.

Secondo la proposta definitoria elaborata dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro nel 2018, la care economyrappresenta quel «settore della economia che include tutte le forme di lavoro di cura e assistenza», che consistono «[nel]l’insieme di attività e relazioni finalizzate a soddisfare i bisogni fisici, psicologici ed emotivi di adulti e bambini, fragili e normodotati, anziani, malati e persone con disabilità, nonché adulti sani, che hanno esigenze fisiche, psicologiche, cognitive ed emotive e che, di conseguenza, richiedono vari gradi di protezione, cura o supporto».

In questi termini, circoscrivendo la definizione di matrice sovranazionale, per meglio adattarla al contesto dell’indagine, il lavoro di cura identifica le attività svolte da coloro che assistonode jure (rectius, in forza di una previsione contrattuale) o de facto (in virtù di un legame di parentela o convivenza) – persone non autosufficienti nel compimento di atti della vita quotidiana.

Le principali attività del caregiver riguardano, quindi, l’assistenza diretta e indiretta alla persona bisognosa di cura. Le prime, ossia le attività di assistenza diretta, hanno come finalità il soddisfacimento dei bisogni primari, come la cura e l’igiene personale, la preparazione dei pasti, la pulizia della casa e il supporto nella somministrazione dei farmaci; le seconde, ossia le attività di assistenza indiretta, attengono, invece, all’accompagnamento dell’assistito alle visite mediche e alla gestione delle pratiche amministrative e burocratiche.

Inoltre, nel caso di persone con ridotta mobilità, il caregiver svolge financo compiti di sorveglianza attiva e, cioè, interviene in caso di pericolo per l’assistito, ovvero, nell’ipotesi di persone allettate, mansioni di sorveglianza passiva, che consistono nella vigilanza costante sul loro stato di salute, anche prevenendo eventuali rischi per la sicurezza nell’ambiente domestico.

 

Come?

Il lavoro di cura, per come poc’anzi definito, può essere svolto in modo informale (e cioè da una persona, a titolo di gratuità, nei confronti di un altro membro della famiglia), ovvero in modo formale (ossia da un professionista del settore, che, contro retribuzione o compenso, si impegna ad assistere una persona non autosufficiente).

Quanto alla prima modalità, legata alla matrice domestico-familiare della cura, si ritiene che, in linea generale, essa sia resa affectionis vel benevolentiae causae e, pertanto, sia estranea a ogni vincolo di subordinazione. Il primo riconoscimento giuridico del caregiver familiare, avvenuto con la L. di bilancio 2018 (L. n. 205/2017), ha confermato tale impostazione, escludendo la figura dall’alveo dei lavoratori, ma definendola semplicemente come una «persona che assiste e si prende cura del coniuge, dell’altra parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso o del convivente di fatto […], di un familiare o di un affine entro il secondo grado, ovvero, nei soli casi indicati [come vedremo, dall’art. 33, L. n. 104/1992], di un familiare entro il terzo grado […] che non sia autosufficiente o in grado di prendersi cura di sé.

Al contrario, il caregiver “professionale” è un lavoratore specializzato nei servizi di cura e assistenza alla persona, che entra in gioco proprio in assenza (o a supporto) del caregiver familiare. Diversamente dall’attività prestata da quest’ultimo, quindi, il lavoro del formal carer è retribuito e, di norma, associato a competenze tecniche, sociali, relazionali e psicologiche, connesse all’esercizio delle mansioni attribuitegli. Considerata la specialità del lavoro domestico di cura, però, il legislatore ha adottato nei suoi confronti una tecnica legislativa cd. sottrattiva, che prevede la mancata applicazione di alcune tutele riconosciute alla generalità dei lavoratori, ritenendo non estendibile alla “famiglia-datrice” una serie di obblighi di cui è gravato il datore di lavoro stricto sensu: dalla inapplicabilità della disciplina sui licenziamenti individuali (art. 4, c. 1, L. n. 108/1990) e del divieto di licenziamento fino al compimento di un anno di età del bambino (art. 62, c. 1, D. Lgs. n. 151/2001), all’esclusione, in determinati casi, delle disposizioni in tema di orario di lavoro, pause, riposi e lavoro notturno (art. 17, c. 5, D. Lgs. n. 66/2003).

 

Chi?

Complici le dinamiche demografiche italiane (e, in particolare, l’incessante invecchiamento della popolazione residente), la domanda di assistenza da parte di persone non autosufficienti cresce costantemente ogni anno.

A quel che consta dal Rapporto ISTAT sulla conciliazione tra lavoro e famiglia (2019), oltre un terzo della popolazione tra i 18 e i 64 anni (34,6%) si prende cura di figli minori di 15 anni, ovvero di parenti malati, disabili o anziani: di questa percentuale, la quota maggiore di caregiver familiari si colloca nella fascia d’età fra i 35 e i 44 anni (59,9%) e tra gli occupati (33,7%).

Le persone che, più specificamente, assistono figli o altri parenti malati, disabili o anziani sono oltre 2 milioni e 800 mila (7,7%). Si tratta di una responsabilità di cura che grava principalmente sulle donne (9,4% contro il 5,9% degli uomini) e sulle persone già diversamente occupate (40%). Quanto a questo ultimo profilo, ben si comprende come il duplice impegno (professionale e di cura) si rifletta negativamente sulla partecipazione al mercato del lavoro, innescando una spirale negativa che attrae i (ma, soprattutto, “le”) caregiver nella disoccupazione e nella inattività.

Guardando alla condizione dei lavoratori-genitori, con specifico riguardo alla classe d’età in cui è più alta la presenza di figli “under-15” (25-54 anni), si nota che il tasso di occupazione dei padri è dell’89,3%, contro il 57% di occupate madri (per gli uomini senza figli coabitanti, tale percentuale scende all’83,6%, mentre, per le donne senza figli, essa sale al 72,1%).I tassi di occupazione più bassi si registrano tra le madri di bambini in età prescolare (53% per le donne con figli di 0-2 anni e 55,7% per quelle con figli di 3-5 anni). D’altro canto, la quota di chi resta fuori dal mercato del lavoro è più bassa per i padri rispetto agli uomini senza figli (il tasso di inattività è rispettivamente 5,3% e 9,1%) e più alta, invece, per le madri rispetto alle donne senza figli (35,7% contro 20,3%).

Anche con riferimento all’assistenza a familiari malati, disabili o anziani bisognosi di cure sono le donne a essere gravate di questa responsabilità: quasi sei su dieci, nella fascia d’età tra i 45 e i 64 anni, si curano di una persona non autosufficiente e, tra queste, solo una su due è occupata (49,7%). Dal confronto con le donne che non hanno questo tipo di oneri familiari emerge un divario tra i tassi di occupazione pari a quasi quattro punti percentuali. Il possesso di un titolo di studio pari o superiore alla laurea, invece, riduce la differenza tra le donne con e senza responsabilità a soli 1,9 punti.

Simili tendenze si osservano anche nell’ambito del caregiving professionale. Secondo l’ultimo Rapporto dell’Osservatorio nazionale DOMINA (2022), infatti, i lavoratori domestici impegnati nella cura sono prevalentemente donne di cinquanta anni d’età.

Nel dettaglio, lo studio mostra come, su un totale di circa 2 milioni di caregiver, il 47,7% sia costituito da lavoratori regolari e come il restante 52,3% sia attratto al lavoro sommerso. Si tratta di un settore caratterizzato da una forte presenza di manodopera straniera (70%), proveniente soprattutto dall’Est Europa, e, come anticipato, da una prevalenza di forza lavoro femminile (85%). Una lettura combinata dei fattori “genere” e “nazionalità” fa emergere come il 57,5% sia rappresentato da donne straniere, il 27,4% da donne italiane, il 12,4% da uomini stranieri e solo il 2,6% da uomini con cittadinanza italiana.

A completare la triste cornice del mercato del lavoro di cura reso in forma “professionale”, recenti studi hanno evidenziato come esso sia tradizionalmente associato a bassi livelli salariali e a condizioni di impiego precarie, nonché, come detto, a forme di irregolarità contrattuale e di sfruttamento, che non consentono di apprezzarne e valorizzarne i contenuti professionali. Invero, profili quali la dimensione privata in cui si realizza il rapporto di lavoro, la presenza simultanea di plurimi datori di lavoro e il considerevole ammontare di ore lavorative concorrono a una dequalificazione del lavoro di cura, la quale nasce sul versante del trattamento normativo, sino a svilupparsi su quello del trattamento economico, soffocando i livelli medi della retribuzione degli occupati (rectius, delle occupate) in questo settore tra i più bassi del mercato del lavoro e, in molti casi, lontani dall’assicurare un’esistenza libera e dignitosa.

 

#WG1: quali permessi e congedi?

Il primo gruppo di lavoro è chiamato a ricostruire la disciplina dei permessi e dei congedi a cui la persona che lavora può accedere per assistere un proprio familiare convivente non autosufficiente.

In questo senso, per esempio, occorrerà approfondire la L. n. 104/1992, che, all’art. 33, regola i permessi fruibili dal caregiver, al fine di prestare assistenza nei confronti del parente con disabilità. In particolare, la disposizione – recentemente novellata dal D. Lgs. n. 105/2022, di recepimento della Dir. 2019/1158/UE relativa «all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza» – contempla tre giorni (anche continuativi) di permesso mensile, retribuito e coperto da contribuzione figurativa, a favore del lavoratore che assista un parente o affine (entro il terzo grado) con disabilità grave, purché questi non sia ricoverato a tempo pieno.

Ulteriori istituti che potranno essere indagati dal primo gruppo di ricerca sono, poi, rappresentati dai congedi parentali, riconosciuti ai genitori per l’assistenza dei figli (sino al compimento dei 12 anni) e dai congedi straordinari, previsti per il caregiver della persona che presenti forme gravi di disabilità. In entrambi i casi, disciplinati dal  D. Lgs. n. 151/2001(per come modificato, dapprima, dai D. Lgs. nn. 80 e 81/2015 e, da ultimo, dal D. Lgs. n. 105/2022), si tratta di periodi di astensione dal lavoro, fruibili (anche in modo frazionato) dal lavoratore, per soddisfare i bisogni della persona non autosufficiente.

Nondimeno, a rivestire una notevole importanza per questa indagine è anche lo strumento della cessione (gratuita e volontaria) di ferie e riposi fra lavoratori, espressamente finalizzato a consentire l’assistenza a «figli minori che, per le particolari condizioni di salute, necessitano di cure costanti». Introdotto nell’ordinamento dal D. Lgs. n. 151/2015 (art. 24), questo meccanismo promuove un sistema solidale, in cui – secondo le regole previste dal contratto collettivo applicato in azienda, circa le condizioni e le modalità della cessione – i lavoratori possono permettere ai colleghi di astenersi dal lavoro, per assistere i propri figli in condizione di fragilità.

Sulla base di queste considerazioni generali, il gruppo di lavoro dovrà ricostruire la disciplina vigente in materia di permessi e congedi fruibili dai caregiver familiari, evidenziando le più recenti novità legislative e le buone prassi ritraibili dalla contrattazione collettiva, tanto nel settore privato, quanto nel pubblico impiego. Apprezzabile sarà anche la raccolta e la disamina di alcune pronunce giurisprudenziali circa le discriminazioni operate dalla parte datoriale verso i lavoratori che chiedano e/o usufruiscano dei permessi e dei congedi cennati.

 

#WG2: quali misure organizzative flessibili?

Al secondo gruppo di lavoro è, invece, richiesto di individuare le forme di flessibilità spazio-temporale di esecuzione dell’attività lavorativa, a cui il prestatore può accedere per poter sostenere le esigenze di cura del familiare non autosufficiente. Pertanto, l’obiettivo della indagine è quello di intercettare le misure organizzative tese a favorire laconciliazione vita-lavoro e, quindi, a rendere più agevole il bilanciamento fra gli impegni professionali e l’esercizio dell’affectio.

Un primo istituto che occorrerà approfondire in questa sede è certamente rappresentato dal lavoro agile, disciplinato ai sensi del Capo II (artt. 18-24) della L. n. 81/2017 e di cui, peraltro, si è fatta ampia e recente esperienza nel contesto pandemico. Invero, la possibilità di rendere la attività lavorativa in “alternanza” e, cioè, «in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale» è orientata (come espressamente indicato dal legislatore, ex art. 18) ad «agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro».

Altresì, il lavoro a tempo parziale (ex artt. 4-12, D. Lgs. n. 81/2015), quale modalità flessibile di svolgimento della prestazione lavorativa, che prevede un regime dell’orario di lavoro inferiore al tempo pieno, si presta alla medesima lettura. Ben si comprende, infatti, come l’orario ridotto consenta al lavoratore di avere più tempo a disposizione, in generale, per soddisfare le proprie esigenze personali e, in particolare, per poter curare esigenze personali altrui.

In entrambi i casi, però, si tratta di verificare se e quando il caregiver possa accedere a tali forme di flessibilità lavorativa, per assistere un proprio familiare non autosufficiente, vagliando, da un lato, le ipotesi di sussistenza del diritto/priorità nell’accoglimento delle istanze di lavoro agile (art. 18, c. 3-bis, L. n. 81/2017) e, dall’altro, le circostanze in cui sia riconosciuto il diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro dal tempo pieno al tempo parziale (art. 8, c. 3, 5 e 6, D. Lgs. n. 81/2015). Il secondo gruppo dovrà, quindi, ricomporre la disciplina legale di queste due modalità flessibili di esecuzione della prestazione lavorativa, sviluppando il ragionamento all’insegna della conciliazione vita-lavoro e ricercando le previsioni contrattual-collettive che ne incentivano il ricorso.

 

#WG3: quali contributi e incentivi?

Il terzo gruppo di lavoro dovrà, poi, affrontare la questione delle prestazioni economiche, a matrice pubblica, erogate nei confronti delle persone non autosufficienti, per ricevere servizi di cura e assistenza domestica. Al riguardo, la Commissione europea ha recentemente sottolineato – nell’ambito della definizione della European Care Strategy for caregivers and care receivers, presentata lo scorso 7 settembre 2022 – la necessità di implementare la diffusione di strumenti a sostegno della non autosufficienza, provvedendo a definire gli standard qualitativi minimi e le linee di intervento necessarie a colmare il vuoto di tutela dei sistemi di welfare nazionali.

Vero è, però, che l’ordinamento interno già prevede alcuni contributi e incentivi pubblici, volti a garantire l’accesso a forme di cura e assistenza domestica alle persone che ne abbisognano. Un primo esempio, in tal senso, è rappresentato dalla «indennità di accompagnamento» (di cui alla L. n. 18/1980), che costituisce una prestazione economica erogata dall’INPS – indipendentemente dal reddito personale annuo e dall’età del beneficiario – in favore di soggetti «mutilatati ed invalidi civili totalmente inabili».

Inoltre, lo stesso Istituto previdenziale bandisce specifici concorsi “Home Care Premium” (nella sezione Welfare, Assistenza e Mutualità del proprio sito web) tanto per l’erogazione di un contributo economico di rimborso delle spese sostenute per l’assunzione del caregiver domiciliare, quanto per i servizi di assistenza alla persona erogati dagli enti convenzionati con l’INPS.

Sulla scorta di tali osservazioni, il gruppo di lavoro dovrà, anzitutto, esaminare i contenuti della Strategia europea per l’assistenza, per poi mappare i contributi e gli incentivi previsti nell’ordinamento interno (e i relativi requisiti di accesso) e verificarne la rispondenza alle indicazioni di fonte sovranazionale. Apprezzabile sarà anche il ricorso alla prospettiva comparata, per verificare come la questione sia stata affrontata in altri Paesi.

 

#WG4: quale trattamento economico e normativo?

Diversamente dai precedenti, il quarto gruppo di lavoro è chiamato ad approfondire specificamente la figura del caregiver professionale. Come già anticipato, si tratta di un mestiere che soffre di una scarsa valorizzazione, sia sul versante retributivo (con salari medi tra i più bassi del mercato del lavoro), sia con riguardo alle condizioni di impiego e alla stabilità nel rapporto di lavoro.

Tuttavia, nei confronti dei lavoratori destinatari del CCNL lavoro domestico, si è recentemente assistito a una maggiorazione dei salari minimi e dell’indennità di vitto e alloggio. Vero è, però, che tali aumenti non sono stati negoziati nell’ambito delle trattative fra le parti sociali, ma sono derivati da un “automatismo” previsto dal contratto collettivo: l’art. 38 dello stesso, infatti, prevede che sia una «Commissione nazionale [ad aggiornare] annualmente i livelli minimi delle retribuzioni e i valori convenzionali del vitto e dell’alloggio» e che, in caso di mancato accordo, l’adeguamento annuale sia calcolato in relazione all’inflazione rilevata dall’ISTAT ,nella misura dell’80% per il salario minimo e del 100% per l’indennità integrativa. Sicché, complice il mancato raggiungimento dell’intesa, a far data dal 1° gennaio 2023, è scattato automaticamente l’aumento dei trattamenti retributivi del 9,2% e dell’indennità di vitto e alloggio dell’11,5%.

L’effetto collaterale di un simile aumento del costo del lavoro di cura risiede in un fenomeno già noto nel settore, esacerbando il rischio di irregolarità contrattuali, lavoro sommerso e sfruttamento. Innanzi a tali considerazioni, il gruppo di lavoro è chiamato alla mappatura dei sistemi retributivi e delle previsioni relative a particolari indennità economiche a favore dei caregiver, nei principali contratti collettivi nazionali di lavoro del settore, e a proporre strumenti e tecniche di tutela per contrastare il lavoro nero.

 

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