BLOG

Cassazione: la libertà religiosa non giustifica la discriminazione in base all’orientamento sessuale

Giurisprudenza - Nicola Deleonardis - 7 Dicembre 2021

Con sentenza del 2 novembre 2021, n. 31071 la Corte di Cassazione ha confermato la decisione della Corte d’Appello di Trento del 2017, n. 14, che aveva rilevato “la natura discriminatoria per orientamento sessuale, individuale e collettiva”, della condotta posta in essere da una Scuola paritaria cattolica nella selezione per l’assunzione degli insegnanti.

Nel caso di specie, l’Istituto non aveva rinnovato il contratto a tempo determinato, nè lo aveva trasformato in contratto a tempo indeterminato, di una docente in ragione del suo orientamento sessuale percepito. Si tratta di un dato fondamentale da sottolineare, poiché nel diritto antidiscriminatorio non è essenziale verificare l’effettiva omosessualità della vittima. La superiora dell’Istituto aveva perfino “indagato” al riguardo, senza giustamente ottenere alcuna conferma da parte della docente circa il suo effettivo orientamento sessuale (v. R. Santoni Rugiu, Il caso della docente di una scuola religiosa: la discriminazione per orientamento sessuale nelle organizzazioni di tendenza, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2017, 4, p. 816 ss.).

Tale tratto della personalità “percepito” dalla rappresentante dell’ente datore di lavoro ha finito per cancellare l’ampio consenso verso l’operato della docente, sicché il rapporto di lavoro non è potuto proseguire con buona pace del merito. In ragione di ciò, i giudici hanno avuto agio nel descrivere l’accaduto come una discriminazione diretta. Da qui la decisione – ora confermata dalla Corte di cassazione – della Corte di appello di Trento, risalente al 2017, che aveva condannato l’Istituto convenuto a pagare 30mila euro di danni morali e 13.329 di danni patrimoniali alla docente, oltre a riconoscere a titolo di risarcimento del danno 10mila euro alla Cgil del Trentino e altrettanti all’Associazione radicale Certi diritti, che erano intervenuti nel giudizio ad adiuvandum.

Nella motivazione della Corte Suprema, meritano un cenno le confutazioni ai primi tre motivi di ricorso dell’Istituto.

Per quanto riguarda il primo motivo, l’Istituto lamentava un eccessivo onere della prova a suo carico. Invero, e come previsto dall’art. 28 d.lgs. 150/2011, la vittima delle discriminazioni si avvantaggia di un alleggerimento dell’onere della prova, proprio per evitare che l’impossibilità di fornire una prova diretta della discriminazione impedisca la realizzazione in concreto della parità di trattamento di tutti i soggetti a prescindere dalle loro qualità o caratteristiche personali (C. giust. 17 luglio 2008, C-03/06, Colemann).

Il secondo motivo di ricorso dell’Istituto addebitava alla Corte d’Appello un’errata interpretazione dell’art. 19 del CCNL Agidae, in tema di “collaborazione del lavoratore all’ambito di attività dell’insegnamento” alla luce dei principi costitutivi dello Statuto della Scuola paritaria. La Corte territoriale, infatti, aveva già ritenuto che tale clausola non attenesse a valutazioni personali della vita del lavoratore, pur sempre tutelata dall’art. 8 della l. n. 300/1970. La Suprema Corte respinge la doglianza dell’Istituto poiché priva di una “specifica indicazione – ossia (priva del)la precisazione del modo attraverso il quale si è realizzata l’anzidetta violazione e delle ragioni della obiettiva deficienza e contraddittorietà del ragionamento del giudice”.

Il terzo motivo tocca il punto nevralgico della questione, ossia il limite oltre il quale la libertà di organizzare l’educazione di un Istituto, che sposa determinati precetti religiosi, possa risultare lesiva del diritto all’espressione dell’identità personale del lavoratore; in definitiva, ci si chiede quando la rivendicazione della libertà religiosa configuri una violazione di diritti fondamentali. L’Istituto, infatti, ha denunciato la violazione o falsa applicazione dell’art. 3, cc. 3 e 5, d. lgs. n. 216/2003 nonché della I. n. 121 del 1985, concernente la ratifica dei Patti lateranensi, poiché la Corte territoriale non aveva considerato che anche il diritto antidiscriminatorio avrebbe dovuto declinarsi secondo i principi della libertà di organizzazione e delle finalità ispiratrici dell’Istituto ricorrente, risultando leso sia il principio di eguaglianza, sia quello della libertà di insegnamento (artt. 3 e 33 Cost.).

L’Istituto si è appellato, dunque, alle deroghe previste dalla Direttiva 78/2000/CEE e al d.lgs. n. 216/2003. L’art. 4.2 della Direttiva, infatti, esclude si configuri una discriminazione nel caso in cui la natura dell’attività lavorativa, o il contesto in cui essa si svolge, confliggano con il fattore di discriminazione da proteggere. L’art. 3 d.lgs. n. 216/2003 ribadisce tale principio: non si configura una discriminazione nel caso in cui il fattore da proteggere (l’orientamento sessuale) nel contesto lavorativo sia caratteristica preclusiva dell’attività lavorativa che si deve svolgere. Il che dovrebbe escludere che la differenza di trattamento sulla base dell’orientamento sessuale sia considerata illecita se praticata da enti religiosi o organizzazioni c.d. “di tendenza” a cui è inviso l’orientamento omosessuale.

Nel caso di specie, a giustificazione della propria condotta, l’Istituto ha sostenuto in prima istanza che la scelta di non proseguire nel rapporto di lavoro con la docente era stata imposta dalle proteste dei genitori che non volevano per i propri figli un’insegnante omosessuale in una scuola cattolica. Già la Corte d’Appello aveva superato tale obiezione, osservando che il diritto antidiscriminatorio è proprio volto a contrastare trattamenti differenziati praticati sulla scorta di convinzioni diffuse ma non per questo oggettive (v. già la sentenza della C. giust C-54/07, Feryn, in materia di pregiudizi razziali). Tale interpretazione è stata confermata dalla Cassazione.

Ancora, l’Istituto ha ritenuto inconciliabile la condizione di omosessualità con l’ordine morale della scuola come organizzazione di tendenza religiosa, rivendicando così quella possibile disparità di trattamento avallata dalle deroghe prevista dalla Direttiva 78/2000 e dall’art. 3 d.lgs. 216/2003. La Corte territoriale aveva già rivelato come un tale argomento fosse fondato su un’errata sovrapposizione tra orientamento affettivo, regole di comportamento sessuale e principi fondamentali di etica sociale e di relazione che ispirano il progetto educativo dell’Istituto. L’orientamento sessuale, infatti, attiene a una sfera emozionale ed emotiva, la parte più intima del sè (quest’ultima tutelata dall’art. 8 CEDU), che non confligge con le scelte religiose e con l’atteggiamento di lealtà e buona fede che il lavoratore deve tenere sul posto di lavoro (diversamente, il caso Corte EDU 23 settembre 2010, 425/03, Obst c. Germania, in cui la Corte ritiene legittimo il licenziamento che la Chiesa Mormone aveva attuato nei confronti di un proprio dirigente poichè aveva una relazione extraconiugale).

Il passaggio più importante, rilevante anche rispetto al principio di laicità dello Stato, è però rinvenibile in un ulteriore argomento della Cassazione: la scuola paritaria svolge un ruolo di servizio pubblico e di indirizzo pedagogico-didattico conforme all’ordinamento nazionale; per questo motivo è da escludersi l’ammissibilità della deroga al divieto di discriminazione prevista dall’art. 3 d.lgs. 216/2003 a favore delle organizzazioni c.d. “di tendenza”. L’Istituto, dunque, è obbligato a conformarsi al rispetto dei principi garantiti dalla Costituzione (art. 2 Cost.).

Pertanto, è discriminatorio interrompere un rapporto di lavoro sulla base di pregiudizi, dal momento che la professione del docente e la disciplina del suo insegnamento sono compatibili con il suo orientamento sessuale.

La sentenza, al di là di qualsiasi valutazione strettamente giuridica, ci restituisce una chiara immagine dell’incidenza della omofobia sull’esercizio dei poteri del datore di lavoro. Mentre altrove, segnatamente in Francia, si moltiplicano le iniziative di grandi società per favorire il coming out dei prestatori di lavoro [cfr. Daniel Borrillo, L’annuncio pubblico di una discriminazione futura costituisce già una discriminazione (L’annonce publique d’une discrimination future constitue déjà une discrimination), nota a Corte giust. UE, Grande sezione, 23 aprile 2020, causa C-507/18, in Responsabilità civile e previdenza, Giuffrè, Milano, 2020, 1155-1166], nel nostro Paese le persone omosessuali vivono spesso la paura di manifestare sul posto di lavoro una parte essenziale della loro vita. Proprio il posto di lavoro, paradossalmente, si trasforma in un luogo di indebolimento delle relazioni sociali, dove si diffondono e consolidano stereotipi e pregiudizi. E ciò senza considerare le ricadute sul mercato del lavoro nel suo complesso, dal momento che il merito cessa di essere il meccanismo principale di selezione del personale. Nel caso di specie, ciò è particolarmente evidente: il giudizio sulla vita della docente ha soppiantato i potenziali benefici che la lavoratrice avrebbe potuto apportare all’impresa.

Ancora una volta, dunque, la giurisprudenza non solo ha fatto emergere l’essenza della discriminazione, ma ha cercato (e trovato) una strada per il contemperamento tra libertà e diritti costituzionalmente protetti (v. già  Cass. civile, 20 luglio 2018, n. 19443; e poi Corte di giustizia, caso NH c. Associazione Avvocatura per i diritti LGBTI, C-507/18. Sul punto A. Sperti, Il diritto della comunità LGBT ad una tutela non illusoria, in Giurisprudenza Costituzionale, 2020, 4, p. 2249 ss.). Il che trova conferma nella giurisprudenza della Corte Suprema americana, la quale ha sancito che il divieto di licenziare per ragioni legate all’orientamento sessuale o all’identità di genere del lavoratore rientra nel divieto di discriminazione sulla base del sesso introdotto dal Civil Right Act del 1964.

 

 

Potrebbe interessarti anche