Caso ILVA: c’è una discriminazione ambientale?
La recente pronuncia sul Caso ILVA della Corte Europea dei Diritti umani, emessa il 5 maggio 2022 (ricorso N. 4642/17), consente una riflessione sulla possibile qualificazione del diritto dei ricorrenti anche sotto il profilo del diritto antidiscriminatorio, in particolare con riferimento alla c.d. discriminazione ambientale, che si può definire come ogni disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento che, direttamente o indirettamente, abbia come conseguenza una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza, che comprometta il riconoscimento, il godimento e l’esercizio in condizioni di parità del diritto fondamentale all’ambiente.
La pronuncia non si palesa innovativa sotto il profilo della “qualità di vittime” dei ricorrenti, in particolare rispetto alla sentenza Cordella c. Italia (CEDU, 24 gennaio 2019, ricorsi n. 54414/13 e 54264/15) né rispetto al risarcimento del danno spettante. La domanda riguardava le emissioni inquinanti prodotte dall’acciaieria Ilva e i loro effetti sulla salute della popolazione locale. I ricorrenti, alcuni dipendenti dello stabilimento, altri residenti nei comuni interessati dall’inquinamento, lamentavano che lo Stato non avesse adottato misure legali e regolamentari per proteggere la loro salute e l’ambiente e non avesse fornito loro informazioni sull’inquinamento e sui rischi connessi per la loro salute. Deducevano, inoltre, di aver subito una violazione al diritto ad un ricorso effettivo.
Nella parte motiva la Corte ha, in particolare, rilevato come il procedimento per l’esecuzione della sentenza Cordella sia ancora pendente dinanzi al Comitato dei Ministri e che dal verbale della riunione del 9-11 marzo 2021 si evince che le autorità nazionali non hanno fornito informazioni precise circa l’effettiva attuazione del piano ambientale. La CEDU ribadisce l’essenzialità dei lavori di bonifica e dell’attuazione del piano ambientale a tutela della protezione dell’ambiente e della salute della popolazione. Pur accogliendo gran parte delle censure dei ricorrenti, la CEDU, oltre al rimborso delle spese sostenute per adire la Corte (determinate in via forfettaria), non liquida alcunché a titolo di danno reputando, peraltro, satisfattivo del danno morale richiesto l’accertamento della sussistenza della violazione degli artt. 8 (diritto al rispetto della vita privata) e 13 (diritto ad un ricorso effettivo). Le censure mosse allo Stato Italiano, tuttavia, non hanno condotto ad esiti “innovativi” sotto il profilo risarcitorio.
Quid iuris, in particolare sotto il profilo del risarcimento del danno, qualora fosse stata invocata la discriminazione ambientale subita – indubbiamente- dai ricorrenti?
Invero profili discriminatori emergono dalla lettura della recente pronuncia sul caso ILVA, nonché della richiamata sentenza Cordella c. Italia, cui ampiamente la Corte rinvia nella stringata motivazione. Particolarmente interessanti sono i §§150-153 della sentenza Cordella c. Italia che richiamano le deduzioni dell’ISDE in ordine ai dati emersi dal rapporto SENTIERI del 2014, che indicava un tasso di mortalità infantile più alto nella regione di Taranto rispetto a quello delle altre regioni (tasso superiore del 20% per quanto riguarda i decessi nel primo anno di vita e del 45% per quanto riguarda i decessi in utero), un rischio oncologico più elevato nella fascia di età compresa tra 0 e 14 anni, nonché un rischio di malformazioni congenite superiore al 10% rispetto alla media regionale (dati del registro regionale delle malformazioni congenite).
Potrebbe qui ipotizzarsi il medesimo profilo risarcitorio evidenziato dall’atto di citazione contro lo Stato Italiano per l’inazione rispetto ai cambiamenti climatici denominato “Giudizio universale” nonché da altre controversie contro gli Stati. È evidente, infatti, che i bambini siano discriminati in quanto appartenenti, in ragione dell’età, ad un gruppo particolarmente vulnerabile e perché l’inazione dello Stato italiano sposta in avanti e quindi addossa principalmente a loro l’onere ed il costo delle conseguenze nefaste di tali fallimenti.
Pure potrebbe valorizzarsi il legame tra genere e inquinamento, dato che, secondo uno studio che riguarda alcune donne residenti in cinque città industriali della Puglia, tra cui Taranto, esiste una correlazione tra, da una parte, la presenza di PM10 e i livelli di ozono e, dall’altra, il tasso di aborti spontanei (§152). Come è noto molti sono ormai i documenti internazionali che chiariscono il legame tra discriminazioni di genere e discriminazioni ambientali.
Queste osservazioni, già presenti nella sentenza Cortella, aprono alla possibilità di richiedere danni azionando i rimedi antidiscriminatori tenendo conto di diversi fattori: età, disabilità, genere.