Assegno Unico universale: profili di illogiche discriminazioni
É stato pubblicato sulla GU n. 309 del 30.12.2021 il decreto legislativo n. 230, attuativo della legge delega n. 46 di istituzione dell’assegno unico universale per i figli a carico.
Benché il decreto a prima vista sembri riconoscere il beneficio a tutte le famiglie con figli, in sostituzione delle attuali forme di sostegno economico (assegni familiari detrazioni, bonus ecc.), diversi appaiono i punti caratterizzati da grave criticità. Se da un lato, infatti, il legislatore nazionale ha eliminato aspetti di non conformità della legge delega alla Direttiva 2011/98/UE, restano pur sempre escluse ampie categorie di soggetti con dirette conseguenze discriminatorie.
Preliminarmente, la Legge delega n. 46/21 era intervenuta a modificare il previgente sistema normativo che, di fatto, riservava le prestazioni ai soli stranieri lungo soggiornanti, escludendo così tutti i possessori di titoli di soggiorno a tempo determinato. Cionondimeno, la medesima disposizione prevedeva, quale requisito, la titolarità del permesso “per lavoro e ricerca di durata almeno annuale”. Orbene, una tale previsione si poneva inevitabilmente in contrasto con l’art. 12, comma 2 lettera b) della Direttiva 2011/98/UE che, invece, legittima un diverso trattamento nei soli casi di permesso inferiore a 6 mesi. Per tale ragione, il decreto attuativo ha modificato siffatto aspetto, prevedendo che la durata minima del permesso di soggiorno richiesto debba essere di 6 mesi in luogo di un anno, come prevedeva la legge delega.
Ora, se sotto il profilo appena menzionato va certamente dato merito al legislatore nazionale di essere positivamente intervenuto, restano pur sempre aperti gravi scenari di discriminazione.
L’odierno impianto, infatti, limita l’accesso alla prestazione ai soli possessori di “permesso unico di lavoro”. Siffatto titolo è stato introdotto a mezzo della Direttiva 2011/98/UE, che ha istituito, in tutti gli Stati UE, una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini stranieri di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro, nonché di godere di nucleo di diritti analoghi a quelli dei lavoratori nazionali in tutti gli ambiti connessi all’occupazione quali condizioni di lavoro, istruzione e formazione professionale, sicurezza sociale, prestazioni sanitarie. Tuttavia, va rilevato che, nonostante altri titoli di soggiorno consentano lo svolgimento di attività lavorativa, la dicitura “perm. unico lavoro” non viene inserita: nei permessi di soggiorno UE per lungo soggiornanti, nei permessi rilasciati per motivi umanitari, per status di rifugiato e di protezione sussidiaria, per studio, per lavoro stagionale, per lavoro autonomo, protezione speciale, per vittime di violenza domestica e i permessi rilasciati ai sensi dell’art. 19, commi 1 e 1.1., Testo Unico Immigrazione (TUI) e per talune categorie particolari per le quali è previsto l’ingresso al di fuori del meccanismo dei flussi programmati. Il che, si traduce inevitabilmente in una indiscriminata esclusione di tutti i titolari di permessi di soggiorno che, ai sensi dell’art. 5, comma 8.2., TUI, non sono riconducibili al “permesso unico lavoro”. Più precisamente, restano esclusi i possessori dei titoli sopra richiamati con la sola eccezione dei lungo soggiornanti espressamente inseriti dal d. lgs. n. 230/2021 tra i soggetti beneficiari.
Tutto ciò considerato, resta, a parere di chi scrive, incomprensibile la ratio di siffatta scelta legislativa, considerato che nelle espresse intenzioni del legislatore vi era la volontà di apprestare sostegno ai nuclei familiari privi di aiuti alla famiglia come, per l’appunto, i titolari di permesso di soggiorno per lavoro autonomo. Grave, inoltre, risulta la parimenti incomprensibile esclusione dei titolari di protezione internazionale (asilo politico e protezione sussidiaria), che, rappresentano sovente gravi vulnerabilità che richiederebbero supporto. Tale esclusione, peraltro, si pone in contrasto con la disposizione di cui all’art. 29 Dir. 2011/95/CE che pacificamente ammette i beneficiari a dette prestazioni statuendo che “Gli Stati membri provvedono affinché i beneficiari di protezione internazionale ricevano, nello Stato membro che ha concesso tale protezione, adeguata assistenza sociale, alla stregua dei cittadini dello Stato membro in questione”.
E ancora ci si interroga sulla gravissima esclusione delle vittime di violenza domestica che, al contrario, necessitano di assistenza e aiuti economici che rappresentano un incentivo alla denuncia di dette violenze. Non è mistero che le vittime di violenza domestica restano indissolubilmente legate ai maltrattanti anche per motivi economici, lì dove la violenza psicologica perpetrata a loro danno le rende sole, insicure ed economicamente legate al carnefice.
Per quanto finora evidenziato, il D.lgs n. 230/2021 sembra dar luogo a una discriminazione istituzionale nei confronti di un’ampia platea di soggetti che vivono una condizione di estrema difficoltà economica. Non è difficile immaginare che, in mancanza di immediati correttivi da parte del legislatore, si produrrà un ampio contenzioso innanzi a corti nazionali ed europee.