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Anima e vocazione nella Pubblica Amministrazione

Attualità - Barbara Bresciani - 23 Aprile 2022

Le istituzioni pubbliche hanno un’anima?

Le persone che vi lavorano hanno delle vocazioni?

In che modo gli stereotipi sui dipendenti pubblici influenzano il loro comportamento?

Ne parliamo in questo articolo.

Da decenni, ormai, imperversa una narrazione che tratteggia le persone impiegate nel lavoro pubblico italiano come nullafacenti, raccomandate, assenteiste e arroganti verso l’utenza.

Una narrazione alimentata prima dallo scandalo dei “furbetti del cartellino” e poi da quello dei “furbetti dello smart working”.

Non si nega che esistano inefficienza e corruzione nella pubblica amministrazione.

Ne sono la dimostrazione alcuni dati di fatto, quali gli elevati costi sostenuti dalle imprese nel rapporto con la stessa, la difficoltà degli investimenti esteri nel nostro Paese, l’inadeguatezza della giustizia civile e la farraginosità nell’accesso a molti servizi.

I dati rilevati dall’indagine campionaria realizzata dalla Commissione europea nei 27 paesi dell’Unione nel periodo febbraio-marzo 2021, evidenziano che la pubblica amministrazione italiana è ultima per la qualità percepita dei servizi erogati.

Gli stessi dati mostrano che solo il 22 per cento degli italiani considera buona l’offerta dei servizi in Italia, mentre la media europea si attesta al 46 per cento.

Questi fatti riguardano, però, il funzionamento della pubblica amministrazione nel suo complesso, quale fenomeno multidimensionale e non la qualità, le motivazioni e le virtù delle persone che vi lavorano.

Tuttavia, essi hanno generato pregiudizi e stereotipi che riducono tali persone a una mera categoria e le disumanizzano.

Il valore del lavoro pubblico va ricercato più in profondità e con un approccio sistemico.

Molte delle mansioni che rientrano nell’ambito del settore pubblico comportano attività volte all’aiuto e al supporto di cittadini in condizioni di bisogno e necessità come, ad esempio, quelle connesse all’assistenza socio-sanitaria, all’insegnamento e alla sicurezza.

Questi lavori attraggono normalmente chi ha una spiccata inclinazione all’aiuto, all’altruismo e al servizio verso gli altri.

Il confronto con chi lavora nel settore privato mette in evidenza, in questo senso, una sostanziale differenza di atteggiamenti e disposizioni: i lavoratori del settore pubblico mostrano una maggiore disponibilità a fare ciò che ritengono utile per la società.

“I dati raccolti su più di trentamila lavoratori di cinquanta nazioni differenti, in tutti i continenti, convergono nel mostrare che il livello di altruismo individuale dei lavoratori e l’orientamento al bene comune delle amministrazioni pubbliche si rinforzano a vicenda e che fanno aumentare le probabilità che le persone più altruiste scelgano di lavorare per il settore pubblico.” (Dur Robert, Zoutenbier Robin, Working for a Good Cause, Public Administration Review, 2014)

Per chi, invece, lavora in mansioni più burocratiche e amministrative, lo scarso rendimento è, spesso, legato ai fattori storici e sistemici che hanno creato una pubblica amministrazione gerarchica e burocratica, che ingabbia le energie individuali e demotiva.

Il punto di snodo per una nuova narrazione risiede in chi progetta e in chi dirige la pubblica amministrazione.

La progettazione organizzativa deve diventare capace di valorizzare la “vocazione” e il proposito individuale che hanno spinto verso la scelta lavorativa, attraverso la comprensione della natura delle motivazioni più profonde.

Si tratta in un certo senso di ridare (o dare per la prima volta) un’anima alla pubblica amministrazione.

La vocazione, infatti, ha a che fare con l’anima. È invisibile, non emerge dai curricula vitae dimenticati nei cassetti degli “uffici concorsi”, non si rileva dalle crocette sui quiz d’esame di selezione per l’accesso al pubblico impiego, non è visibile da dati anagrafici o da certe caratteristiche fisiche, ma va cercata, intuita, percepita e vista con gli occhi di chi sa e vuole guardare.

Ad oggi, le organizzazioni pubbliche sono entità burocratiche, finalizzate al mero adempimento normativo, che non sanno guardare alle persone se non come mere esecutrici di procedure e che si accontentano della mediocrità delle prestazioni descritte in modo formale e freddo nelle documentazioni programmatiche.

I sofisticatissimi sistemi di performance che la pubblica amministrazione ha mutuato dal mondo aziendale neoliberista impongono standard che uccidono la vocazione e, con essa, soffocano la motivazione e il talento.

Essi creano un sistema normalizzante che riduce in schiavitù e cattura l’anima.

Come sostiene James Hilmann ne “Il codice dell’anima”, la lente di valutazione è calibrata su valori medi che la rendono più adatta a individuare “i mostri” piuttosto che le eccellenze, alimentando quella narrazione denigrante di cui parlavamo all’inizio.

È indispensabile che le organizzazioni pubbliche recuperino (o sviluppino per la prima volta) la consapevolezza delle loro più profonde finalità e dei loro valori fondanti, per far emergere la propria vocazione.

Questa dovrebbe riguardare innanzitutto il beneficio comune e la costruzione della comunità al cui servizio sono state costituite, per poi ricercare una congruità tra scopo organizzativo e proposito personale, tra i valori individuali e quelli organizzativi.

Ciò faciliterebbe e favorirebbe un’assegnazione condivisa e dinamica dei ruoli, per garantire sia la competenza nel loro svolgimento, sia la spinta interiore a volerlo ricoprire.

In questo senso diventa centrale il ruolo di chi riveste posizioni direttive: citando ancora James Hilmann, servono leader in grado di vedere l’unicità di ognuno con “l’occhio del cuore” che sa vedere la “ciascunità”, servono dirigenti che sappiano essere mentori e vedere le persone per “come stanno”, ovvero nel modo come si mostrano, oltre le categorie, leclassi e i sistemi diagnostici.

La vocazione è visibile nel “come di una prestazione, nelle sue tracce”, il “chi” coincide con il “come”.

Il leader-mentore sa che serve molta pazienza per riuscire a percepire la vocazione nei comportamenti e nei “come” delle prestazioni, ma sa anche che, una volta scorta, essa può smuovere una nuova ispirazione e può elevare e arricchire la qualità delle prestazioni nell’interesse generale, seppur sovvertendo, a volte, l’ordine imposto dal rispetto dei ruoli.

“Serviamo meglio gli altri quando ci poniamo al servizio della nostra vocazione”.

Al momento, invece, il valore prezioso delle motivazioni altruistiche su certi tipi di lavoro pubblico e, in generale, il valore del proposito personale sono trascurati e dispersi.

Viviamo in un sistema sociale che ha dimenticato l’anima e che teme l’ispirazione.

Abbiamo perso la capacità percettiva e sembriamo ormai capaci di “percepire come unica affinità elettiva tra due persone il potere”.

Per questo motivo nelle organizzazioni in generale i ruoli vengono molto spesso assegnati senza valutare le aspirazioni e le attitudini, con un atto di forza che chiude ogni possibilità di dialogo e di crescita.

Se a tutto ciò aggiungiamo una legislazione punitiva e soffocante che regolamenta l’agire della pubblica amministrazione (si veda il Decreto sui “furbetti del cartellino”, ad esempio) sia a livello nazionale che a livello regolamentare decentrato, i vincoli che irrigidiscono gli incentivi al personale e la quasi totale mancanza del lavoro in team, ci rendiamo conto di come la demotivazione sia un fatto più sistemico che individuale.

Anche chi è motivato e volenteroso viene schiacciato dalle rigidità sistemiche e cade nella rassegnazione e nella deresponsabilizzazione.

Questa situazione rende molto difficile orientare il lavoro pubblico verso la soddisfazione dei bisogni della comunità e mettersi al servizio della stessa, partecipando alla sua coesione.

Per recuperare questo fondamentale scopo, è indispensabile un cambio culturale che parta dallo sviluppo di una nuova consapevolezza teleologica e dalla costruzione di una comunità interna, che metta al centro le relazioni, per ricostruire fiducia, dignità e motivazione.

 

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