Nessuna ritorsione contro chi solidarizza con le vittime di razzismo
La Cassazione, sez. I civ., 4 dicembre 2019, n. 31660, ha confermato la decisione della Corte d’Appello di Milano che, riformando la decisione di primo grado, aveva condannato una S.p.a. (una banca) non solo al risarcimento del danno in favore dell’ormai ex vicepresidente del CdA, ma anche al suo reinsediamento. Secondo i giudici di Milano, infatti, la revoca di quell’incarico andava considerata discriminatoria.
La vicenda riguarda un amministratore che aveva reagito di fronte alla discriminazione per motivi razziali di un lavoratore e che, all’esito delle sue proteste (espresse, pur civilmente, anche per iscritto), è stato destituito dal suo incarico.
Gli artt. 4 e 4-bis, D.Lgs. n. 215/2003, in disposto combinato con l’art. 28 d.lgs. n. 150/2011, prevedono che il giudice, quando accerti un comportamento discriminatorio, possa condannare il convenuto al risarcimento del danno, anche non patrimoniale, e ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole, adottando ogni altro provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti. La Cassazione ha così modo di precisare che tale tutela spetta anche a coloro che abbiano subito il comportamento pregiudizievole «quale reazione a una qualsiasi attività diretta a ottenere la parità di trattamento», giusta la previsione dell’art. 4-bis, D.Lgs. n. 215/2003.
Nella vicenda che ci occupa, la normativa antidiscriminatoria è venuta a confliggere con la disciplina civilistica della revoca dell’amministratore (art. 2383 c.c.), che, per il revocato senza giusta causa, prevede unicamente il risarcimento del danno subito e non, invece, la riviviscenza del ruolo societario.
Nel bilanciamento degli interessi, la Suprema Corte, confermando la decisione del gravame, fa comunque prevalere la tutela antidiscriminatoria sulle previsioni civilistiche, riconoscendo nella la revoca dalla carica di vicepresidente del consiglio di amministrazione una condotta discriminatoria vietata, che deve essere privata nei suoi effetti. Il modello reintegratorio e ripristinatorio dello status quo ante di matrice giuslavoristica (artt. 18 e 28 Stat. lav.) è ancora una volta il punto di riferimento, per la sua intrinseca idoneità a rimuovere in concreto ed efficacemente gli effetti della condotta illecita posta in essere.
La condotta di chi difende la dignità altrui non può essere considerata una giusta causa di revoca. Si tratta, infatti, di un comportamento a difesa del principio di parità di trattamento, purché sia realizzata con buona fede e correttezza da parte del revocato. Ove, invece, tale attività sia posta in essere con modalità lesive, in via diretta o indiretta, degli interessi societari, allora essa non è più meritevole di tutela, rientrando tra le condotte idonee a ledere il vincolo fiduciario e, di conseguenza, a determinare la definitiva fine del rapporto tra le parti.
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