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Discriminazione a danno del lavoratore assunto con contratto di lavoro a termine

Giurisprudenza - Massimiliano De Falco, assegnista di ricerca nell'Università di Udine - 11 Aprile 2024

Con la sentenza n. 6841 del 20 novembre 2023, il Tribunale di Napoli ha dichiarato discriminatoria la cessazione anticipata del contratto di lavoro a termine intimata dal datore nei confronti di un dipendente durante l’emergenza da Covid-19. La pronuncia, sia pure di merito, pare meritevole di commento, in quanto ricorda che «i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato, a meno che non sussistano ragioni oggettive» (Dir. 1999/70/CE, clausola 4).

In particolare, la controversia riguarda il caso di un lavoratore subordinato del settore dello spettacolo, assunto (invero, dopo una serie reiterata di contratti a tempo determinato) da una Fondazione lirico-sinfonica con un (ulteriore) contratto di breve durata. Il nuovo rapporto di lavoro, decorrente dal 16 gennaio 2020 al 15 marzo del medesimo anno, prevedeva l’assunzione del prestatore in qualità di professore d’orchestra per la messa in scena di alcune rappresentazioni liriche.

Il 6 marzo 2020 (a nove giorni dalla scadenza fisiologica del contratto), la Fondazione datrice di lavoro comunicava al dipendente la cessazione anticipata del rapporto in corso per «cause di forza maggiore» considerato l’annullamento degli spettacoli programmati disposto dal D.P.C.M. del 4 marzo 2020. Infatti, il provvedimento ministeriale (recante «misure per il contrasto e il contenimento sull’intero territorio nazionale del diffondersi del virus COVID-19») sospendeva «le manifestazioni, gli eventi e gli spettacoli di qualsiasi natura, ivi inclusi quelli […] teatrali, […] che comporta[va]no affollamento di persone tale da non consentire il rispetto della distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro» (art. 1, lett. b). In ottemperanza a tale disposizione, con accordo sindacale del 5 marzo 2020, veniva contestualmente sancita la sospensione delle prestazioni lavorative degli organici tecnici, amministrativi ed artisticidella Fondazione e veniva stabilito che tali «attività non rese convenzionalmente fissate nella misura del 50% delle ore [lavorative] saranno a disposizione della Fondazione in altre attività straordinarie che la direzione vorrà programmare entro dicembre 2020».

Avverso il recesso anticipato, il lavoratore ricorreva innanzi al Tribunale di Napoli, chiedendo di accertare la illegittimità della condotta datoriale, per violazione dell’art. 2119 c.c., e la inefficacia dello strumento risolutorio azionato dalla Fondazione, per mancata estinzione dell’obbligazione di ricezione della prestazione lavorativa e per mancata attivazione di strumenti a tutela del reddito (come, in extrema ratio, gli ammortizzatori sociali). Il lavoratore procedeva, dunque, con la richiesta di risarcimento dei danni connessi alle descritte vicende, ivi incluso il risarcimento del danno da discriminazione indiretta posta in essere in danno dei lavoratori assunti con contratto a tempo determinato. Di contro, la Fondazione si difendeva contestando le argomentazioni a sostegno della domanda proposta dal ricorrente ed eccependo, nel merito, la infondatezza della stessa per la sussistenza di una giusta causa di risoluzione e per la inesistenza di alcuna discriminazione nei confronti del lavoratore.

Al proposito, giova rammentare brevemente i presupposti delle due richieste avanzate dal lavoratore.

Per un verso, la illegittimità della risoluzione anticipata di un contratto di lavoro a termine si verifica quando il recesso viene intimato in assenza di giusta causa, ossia ove non sia venuta meno la ragione che ha giustificato l’instaurazione del rapporto; al di fuori del recesso per giusta causa, la cessazione anticipata può avvenire solo in presenza di una delle ipotesi di risoluzione previste dalla disciplina generale dei contratti (artt. 1453 c.c. e ss.), sicché le mutate esigenze organizzative del datore di lavoro rilevano solo se e in quanto esse determinino una sopravvenuta impossibilità di ricevere la prestazione lavorativa, da valutarsi obiettivamente avendo riguardo alle caratteristiche.

Per altro verso, la discriminazione indiretta si manifesta in presenza di un comportamento che, seppur apparentemente neutro, può mettere in una posizione di particolare svantaggio una persona rispetto a un’altra, a meno che tale trattamento differenziato non sia oggettivamente giustificato da una finalità legittima. Ciò significa che sono sanzionabili le condotte – anche se non suscettibili in astratto di pregiudicare gli interessi del soggetto leso, in concreto –denigratorie in ragione della sola tipologia di contratto di impiego.

Quanto alla declaratoria di illegittimità del recesso anticipato, il Tribunale ha rigettato la richiesta del lavoratore, ritenendo sussistente la ricorrenza di una giusta causa, dettata dalle «circostanze eccezionali e assolutamente imprevedibili legate alla pandemia Covid-19», che rendevano impossibile l’esecuzione della prestazione lavorativa richiesta al ricorrente negli ultimi 11 giorni del suo contratto. Richiamandosi alla precedente giurisprudenza, il giudice ha ricondotto la cessazione anticipata del rapporto alla fattispecie della «impossibilità sopravvenuta nella esecuzione del contratto» (ex art. 1256 c.c.), ritendo, peraltro, impraticabile una sospensione del rapporto, poiché non era prevedibile, all’epoca dei fatti, una ripresa delle ordinarie attività della Fondazione.

Il giudizio così espresso pare condivisibile, nella misura in cui l’impossibilità sopravvenuta della prestazione derivante da causa non imputabile al debitore (art. 1218 c.c.) determina la estinzione dell’obbligazione e la risoluzione del rapporto. Inoltre, per la peculiarità del contratto di lavoro a termine e per le emergenziali esigenze organizzative del datore nel contesto pandemico, si ritiene di aderire all’accoglimento della tesi difensiva del datore, in quanto non era ipotizzabile che la causa di impossibilità fosse solo temporanea. Invero, nel momento in cui veniva sottoscritto il contratto di lavoro, non era ancora intervenuto il provvedimento ministeriale che, poi, avrebbe sospeso gli spettacoli, né tantomeno, a provvedimento emanato, la Fondazione poteva prevedere i tempi di ripresa dell’attività ordinaria per il recupero della parte mancante della prestazione (di soli undici giorni).

Quanto, invece, al risarcimento del danno per discriminazione indiretta, il Tribunale ha accolto la tesi del ricorrente, ritenendo sussistente «una marcata disparità di trattamento tra [questi] e le categorie dei lavoratori a tempo indeterminato e dei lavoratori a tempo determinato di lunga durata». Infatti, sebbene il cennato accordo sindacale non operasse alcuna distinzione fra prestatori a termine e quelli “stabili”, solo per questi ultimi la Fondazione aveva previsto misure di sostegno o di solidarietà nel contesto pandemico, mentre per il ricorrente (e, in generale, per il personale assunto con contratti di lavoro di breve durata) si provvedeva alla cessazione anticipata del rapporto.

In particolare, a decorrere dal 10 marzo 2020, la Fondazione garantiva ai soli lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato o a tempo determinato ma di lunga scadenza: a) la fruizione di ferie e permessi maturati (o maturandi) per assicurare una retribuzione piena a fronte di prestazioni non rese; b) la attivazione di una banca ore nella quale confluivano le ore retribuite ma non lavorate, che sarebbero state poi recuperate con il lavoro straordinario o con prestazioni rese durante il giorno di riposo sino a un massimo di undici giorni; c) la utilizzazione della cassa del Fondo integrativo dello spettacolo (FIS), con copertura (sino all’80%) dei livelli retributivi del singolo lavoratore. Diversamente, nei confronti del personale assunto con contratto a tempo determinato di breve durata, non si prevedeva alcuna forma di tutela del reddito o di recupero del segmento di prestazione ancora da svolgere.

Al riguardo, il giudice ha valutato la discontinuità della legislazione emergenziale, dando atto del vuoto normativo caratterizzante la prima fase della pandemia. Infatti, solo con l’art. 19-bis della L. n. 27/2020 – entrata in vigore il 30 aprile 2020, convertendo il D.L. n. 18/2020 (che, invero, nulla prevedeva per gli impieghi temporanei) – sono state contemplate misure a tutela dei lavoratori assunti con contratti a termine, prevedendo la possibilità di «procedere […] al rinnovo o alla proroga» del rapporto nel periodo in cui l’attività datoriale sia sottoposta a una «sospensione del lavoro o a una riduzione dell’orario in regime di cassa integrazione guadagni». Successivamente, con il D.L. n. 34/2020, è stata ammessa la possibilità di «rinnovare o prorogare fino al 30 agosto 2020 i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato in essere alla data del 23 febbraio 2020, anche in assenza delle condizioni di cui all’art. 19, comma 1, D. Lgs. 15 giugno 2015 n. 81» e, cioè, senza l’obbligo della cd. causale. A parere del giudicante, «proprio l’assenza di misure temporanee di sostegno dettate espressamente per la categoria di lavoratori cui apparteneva il ricorrente, l’incertezza assoluta determinata dalla crisi economica innestatasi e, al contempo, la previsione di misure dettate solo per i lavoratori a tempo indeterminato o a termine con contratti di lunga durata, avrebbero dovuto indurre la Fondazione ad assicurare[…] una forma di tutela anche per tale categoria di lavoratori».

Per tali ragioni, il Tribunale ha ritenuto che la mancata estensione delle descritte tutele ai prestatori assunti con contratto di breve durata abbia concretizzato una discriminazione (indiretta) tra gli stessi lavoratori a termine della Fondazione, poiché alcuni di essi – fra cui il ricorrente – non hanno potuto accedere agli istituti conservativi del rapporto di lavoro predisposti dal legislatore in costanza della situazione emergenziale. Parimenti, è stato ribadito come l’accordo sindacale del 5 marzo 2020 non prevedesse distinzioni fra le diverse tipologie di impiego dei lavoratori, dovendosi, dunque, qualificare come discriminatoria la condotta datoriale tenuta nei confronti del ricorrente, in violazione del divieto imposto dalla clausola 4 della Dir. 70/1999/CE.

Anche in questo caso, la decisione del Tribunale di Napoli pare condivisibile nel merito, poiché la legittimità della risoluzione anticipata del contratto di lavoro non determina la legittimità del successivo comportamento tenuto dalla Fondazione, incurante di aver escluso proprio la fascia di lavoratori più debole da ogni tutela e dalle forme di sostegno predisposte per gli altri lavoratori durante il periodo emergenziale. Nel caso di specie, è quindi evidente il trattamento deteriore a cui il ricorrente è stato sottoposto rispetto agli altri dipendenti assunti con contratto a tempo indeterminato e con contratto a termine di lunga scadenza in ragione della sola natura del contratto di lavoro, così determinandosi una violazione della clausola 4 della Direttiva 70/1999/CE.

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