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Elena Pepponi intervista il Prof. Federico Faloppa, Linguista e coordinatore della Rete nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio

Lingua Diritto Diritti - Elena Pepponi - 21 Marzo 2023

– Dimmi, babbo, cos’è il razzismo?

– Tra le cose che ci sono al mondo, il razzismo è la meglio distribuita. È un comportamento piuttosto diffuso, comune a tutte le società tanto da diventare, ahimè, banale. Esso consiste nel manifestare diffidenza e poi disprezzo per le persone che hanno caratteristiche fisiche e culturali diverse dalle nostre.

Inizia così il celeberrimo saggio di Tahar Ben Jelloun Il razzismo spiegato a mia figlia. Si potrebbero spendere molte parole su cosa sia il razzismo, come esso si declini e come fare per contrastarlo. Nel 1966 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha sancito la nascita della Giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale, in ricordo di un episodio avvenuto alcuni anni prima: nel Sudafrica dell’Apartheid il 21 marzo 1960 la polizia ha fatto fuoco su una manifestazione di persone di pelle nera ferendone 180 e provocando anche 69 morti. A partire dal 1979, poi, l’Assemblea Generale ha deciso che in ogni paese aderente tutti gli anni si sarebbe dovuta dedicare proprio la settimana del 21 marzo a iniziative per la lotta al razzismo e alle discriminazioni.

In occasione di questa ricorrenza per il 2023 ho deciso di intervistare una persona che di razzismo si occupa attivamente tutti i giorni, dal punto di vista linguistico, ma non solo. Si tratta di Federico Faloppa, Professor in Italian studies and Linguistics presso la University of Reading, nel Regno Unito, e coordinatore della Rete nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio (https://www.retecontrolodio.org/). Faloppa ha di recente ripubblicato un suo celebre saggio, Sbiancare un etiope (UTET, 2022) in un’edizione rivista e accresciuta che tenga conto delle tante sollecitazioni contemporanee sull’argomento del razzismo.

 

 

Da linguista a linguista, vorrei iniziare l’intervista con una domanda linguistica, in particolare sul sottotitolo del libro (La costruzione di un immaginario razzista). Il senso di questo sottotitolo vuole suggerire che le parole hanno la facoltà di creare interi mondi, dando loro una forma che prima non avevano?

In parte è così, ma non del tutto. Chiaramente, l’immaginario culturale a cui faccio riferimento è modellato dalle parole, ma cerco di dipingere in realtà un immaginario ad ampio spettro. Il libro cerca certamente di raccontare i termini, dato che il topos del razzismo ha viaggiato prima di tutto tramite le parole scritte, ma non solo: per esempio, anche sotto forma di immagini, quindi di immaginario visualizzato. Faccio cenno a questo proprio nel primo capitolo, Un meme ante litteram: l’immaginario si costruisce di motivi di lunga durata che persistono nella storia, che si inabissano e poi riaffiorano in epoche diverse, sotto forme e registri diversi, in contesti culturali diversi. L’immaginario quindi non è costruito attorno a questa o quella singola parola ma a un topos, un motivo ricorrente, che viaggia nel tempo, si sedimenta, che certamente si nutre di parole e si presenta sotto forma verbale, ma che non è soltanto questo. Nel libro cerco proprio di indagare la costruzione concettuale del razzismo.

Ovviamente, come sappiamo, il mondo è forgiato dalle parole: se partiamo dal punto di vista dell’analisi critica del discorso, ad esempio, sappiamo che le parole nascondono molti significati e anche molti impliciti che si sommano e costruiscono immaginari. Però ecco, nel libro ho cercato di svincolarmi dall’impianto meramente lessicale, perché il razzismo è qualcosa di più profondo: ad esempio, nei primi capitoli il razzismo come lo conosciamo noi oggi non c’entra. C’entra invece la retorica della bianchezza, della purezza morale, del lavaggio di un colore e dell’impossibilità di farlo, in fondo anche di una dimensione allegorica del topos.

 

Questo topos ha conosciuto però nel corso della storia anche fenomeni di riappropriazione, penso alla riacquisizione della nword da parte della musica nera hip-hop statunitense negli anni Novanta.

Certo, la riappropriazione del topos razzista e delle sue stesse parole da parte delle persone direttamente interessate è importantissimo. La riacquisizione è avvenuta soprattutto in un’ottica di messa in discussione ma anche dal punto di vista di una riappropriazione personale, culturale e sociale del valore del proprio colore della pelle, penso specialmente alla rielaborazione critica e letteraria di scrittori e scrittrici di seconda o terza generazione. Questo ci fa capire come il motivo razzista sia carsico: da un lato è stato insabbiato, ma poi è stato ripreso dalle stesse persone che ne sono state vittime perché in fondo è così consolidato che fa parte anche del loro immaginario, immaginario che possiamo definire razzializzato. Dal loro punto di vista, quindi, la riappropriazione serve a mettere in discussione non solo il razzismo, ma anche la razzializzazione, e a far venire a galla tutto l’inconscio sedimentato tanto nei “bianchi” quanto nelle stesse persone razzializzate. Questo è un retaggio che ci portiamo dietro dalla colonizzazione, se ci pensi: la potenza distruttiva dei colonizzatori imponeva un immaginario in maniera talmente forte e violenta che gli stessi colonizzati adottavano questo immaginario nella speranza di ascendere sulla scala sociale. In questo modo, anche le popolazioni colonizzate arrivavano a credere di doversi metaforicamente “sbiancare” per mimetizzarsi con i bianchi a tal punto da poter essere considerate quasi loro pari: queste persone sono state bombardate da questi ideali fino a modificare quasi la percezione che avevano della propria identità. Il punto è che hanno assorbito talmente tanto questa dinamica da poi dover fare un vero e proprio processo di riappropriazione voluta per liberarsene.

 

Nel settimo capitolo (La civiltà del sapone) spieghi anche bene come il colonialismo, e la conseguente imposizione dell’ideale bianco alle persone colonizzate, abbia radici economiche e sociali ben precise. Quali sono?

La colonizzazione è stata un momento storico che ha stravolto completamente molte dinamiche consolidate, ed è stata un meccanismo prima di tutto economico, capitalista se vuoi. Quando si colonizza un popolo non è solo una questione di appropriazione di un territorio altrui e di assoggettamento delle popolazioni colonizzate con conseguente cambiamento dell’immaginario personale e collettivo, si tratta anche e soprattutto di sfruttamento delle risorse, che giustifica il motivo della colonizzazione ma allo stesso tempo è da essa giustificato. Nel capitolo La civiltà del sapone, infatti, vediamo come le pubblicità di saponi proposte nell’800 e raffiguranti variazioni sul tema della persona nera che viene lavata fossero funzionali a vendere sapone, certo, ma allo stesso tempo servissero a giustificare un immaginario colonizzante all’interno del quale l’industria presa in considerazione – quella del sapone, appunto – poteva proliferare sulla pelle di intere popolazioni razzializzate, ridotte al silenzio e sfruttate per meri fini economici. La colonizzazione ha contribuito a saldare il motivo culturale con quello dello sfruttamento economico, in una dinamica di tecnologia. Quando la parola tecnologia assume un significato imperialista siamo in un contesto in cui le materie prime e i mercati vengono sfruttati, ma siamo anche nell’industrializzazione della cultura: l’ideale razzista viene innanzitutto, e soprattutto, alimentato da motivi economici, e allo stesso tempo in essi trova la sua giustificazione per continuare a essere perpetrato.

 

Visto che abbiamo parlato di colonialismo e di cultura dello sfruttamento, vorrei portare il discorso sulla trattatistica para-scientifica dell’epoca. Mi ha colpito molto, leggendo sempre il capitolo sulla colonizzazione, come la trattatistica usasse un linguaggio volto al supporto di quelle teorie di sopraffazione. È quello il momento, secondo te, in cui il razzismo come lo conosciamo noi oggi prende forma?

Certo, anche se il colonialismo non inizia nell’Ottocento, il XIX secolo è quello della massiccia spartizione territoriale dei nuovi mondi, ma ci sono dei germi molto più antichi. Certamente però è quello il secolo in cui i trattati che all’epoca venivano considerati scientifici iniziano a trovare fonti e argomenti per giustificare il razzismo. Talvolta si fa riferimento a testi scritti molto antichi, di geografia ad esempio, altre volte invece si trovano appigli in spiegazioni più recenti, formulate in quel secolo da naturalisti e studiosi di varia natura. L’Ottocento, possiamo dire, è il secolo chiave in cui ciò che prima veniva spiegato in maniera allegorica diventa invece concreto e supportato da teorie nate in un sistema di potere e di sfruttamento.

In questo contesto, il “colonialismo del sapone” ha influenzato anche la mentalità delle madri patrie colonialiste, non solo dei territori coloniali. Se pensi all’Inghilterra vittoriana, ad esempio, la pulizia, la bianchezza, il sapone sono diventati luoghi comuni ricorrenti, sia perché si dovevano evitare le epidemie sia da un punto di vista proprio culturale e ideologico. A partire dalla bianchezza e dalla pulizia della corte reale (pensa al candore di pelle della regina Vittoria, ad esempio) si alimentava lo stereotipo per cui per ascendere sulla scala sociale si dovesse fare largo uso di sapone, lavare sé stessi e i propri abiti, tenere in ordine la propria casa per sé e per la società, per ispirarsi a un modello di riferimento più alto. Chi non si conformava a questo ideale, perché ad esempio era troppo povero o perché svolgeva lavori durante i quali è difficile tenersi puliti (come lavori in fabbrica o a contatto con la terra) veniva marginalizzato, al fronte di una media borghesia che voleva sempre più staccarsi dalle classi lavoratrici e innalzarsi sulla scala sociale con lo scopo di guadagnarne rispettabilità. Nasce infatti proprio in questi decenni anche il marketing industriale della pulizia, volto a raggiungere centinaia di migliaia di consumatori.

Con questo non voglio dire, e ci tengo a precisarlo di nuovo, che i motivi del razzismo nascono nell’Ottocento, ma solo che qui si consolidano e si ampliano raggiungendo una forma diciamo così moderna. Ma in realtà gli immaginari razzisti partono da molto lontano e, in modo carsico, si inabissano e riaffiorano nella storia. Si parte ad esempio con i Greci e i Romani, che avevano un’ideale di alterità non necessariamente legato alla pelle scura (c’erano gli Ethiopes da cui difendersi, certo, ma anche se venivi dalla Scandinavia o avevi i capelli rossi non avevi vita facile nell’antica Roma!), e si passa all’epoca dei primi Padri della Chiesa, per i quali l’alterità e la nerezza rappresentava il peccato, il diavolo e la tentazione, da cui ci si poteva redimere anche se neri solo nell’incontro con Dio. Ciò che è importante sottolineare è che in alcuni periodi della storia tutti i topoi razzisti procedono come binari separati mentre altre volte, ad esempio in epoca rinascimentale e nell’Inghilterra elisabettiana, le varie tematiche si intrecciano. Nel teatro elisabettiano in particolare due punti cardine sono stati fondamentali nella costruzione dell’ideale razzista: il ricorso alle teorie dell’alchimia, secondo le quali un bagno alchemico, cioè una manipolazione della materia che quasi contravviene alle leggi di natura, può rendere bianco ciò che bianco non è, e poi anche il ricorso al meccanismo del rovesciamento teatrale, del “mondo sottosopra” ove tutto è possibile, anche che un nero sia bianco. Il punto è che, ancora in contesto inglese, quando l’ipotesi che le persone nere diventassero “bianche” con atti di legge (cioè, che venissero accordati loro pari diritti nella società e la schiavitù venisse eliminata) le critiche e le avversioni a queste pratiche sono diventate feroci.

Quando tutte queste linee si intersecano, come nei casi appena menzionati, la potenza evocativa del razzismo latente esplode: il colonialismo è stato semplicemente il contesto più fertile per la deflagrazione.

 

Hai menzionato l’importanza che la Patristica ha avuto nella costruzione dell’immaginario razzista. Dunque secondo te, dato il fatto che la religione cristiana, e cattolica in particolare, ha avuto un impatto incredibile sulla cultura occidentale ed europea, possiamo dire che paradossalmente in essa risiedano i germi di queste idee?

Il percorso che ho costruito nel libro si sviluppa cronologicamente e non c’era altro modo di costruirlo, pena il non comprendere a fondo tutte le dinamiche che volevo far emergere: se ne deduce che il momento della Patristica è stato un momento cardine. Tuttavia, non direi mai che Origene o che la religione cattolica in generale stiano alla base del razzismo moderno, perché non è vero, e anche perché ad esempio nel Cantico dei Cantici abbiamo il contraltare di quest’affermazione, con la donna protagonista che è nera ma bella perché ha accolto Dio nella sua vita. Però quello della Patristica è un momento in cui c’è effettivamente una svolta che non possiamo ignorare. L’Etiope della classicità è certamente un diverso, che viene da determinate zone e che esprime alterità, ma con il cristianesimo il nero viene effettivamente, come abbiamo detto, associato al diavolo e al peccato. Nella letteratura cristiana dei primi secoli proveniente dalla zona del Nord Africa questo si capisce benissimo, perché le persone con la pelle nera erano ritenute minacciose anche fisicamente in quel contesto, dato che potevano muovere guerra o attaccare villaggi per razzie. Da questa malvagità avrebbero potuto redimersi con il battesimo: dato che sbiancare la pelle non è possibile, la redenzione dev’essere allegorica.

Dunque la radice cristiana del razzismo è profondissima, ma sbaglierei se affermassi che il razzismo tecnologico, (para)scientifico e sistemico di oggi rappresenti la mera traduzione di questi ideali in una veste più moderna. Il dibattito è molto più complesso e poliedrico, non si può ridurre a un rapporto di filiazione diretta. La chiave sta anche e soprattutto nell’interpretazione dei testi: l’Ottocento è quel secolo che riprende i testi della Patristica, con temi come il “diavolo Etiope” e l’evangelizzazione delle terre lontane, e ne fa un uso del tutto strumentale.

 

A questo punto vorrei farti una domanda “scomoda”: hai scelto come titolo Sbiancare un etiope (e non Sbiancare un nero o un nword) perché l’Italia non ha fatto ancora i conti con il proprio colonialismo, che ha interessato anche l’Etiopia, o solo per meri motivi etimologici?

No, assolutamente, l’Italia non c’entra e non c’entrano gli Etiopi come popolazione di uno stato moderno chiamato Etiopia. L’ho fatto per riprendere filologicamente il fatto che Ethiopes è stata la prima parola, usata da Greci e Romani, per descrivere l’alterità, specialmente africana. Da lì i termini cambiano – ci sono i Mori, i Blackamoors, i negroes e tante altre possibilità. Non avrei mai usato una nword in copertina per mia precisa scelta ideologica, anche se i documenti e le fonti all’interno del libro la riportano, ma la scelta di Etiope è stata davvero solo etimologica e filologica.

 

Vorrei rubarti il titolo dell’ultimo capitolo, “Appunti sull’oggi”, chiedendoti di fare qualche riflessione sulla contemporaneità che stiamo vivendo. Nel 2020 hai fondato la Rete nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni d’odio. Nell’ultimo Festival di Sanremo la pallavolista Paola Egonu ha fatto un importante monologo sul razzismo che lei, pur essendo campionessa europea, ha dovuto subire per il colore della sua pelle, facendoci quindi riflettere sul fatto che non siamo fuori dall’argomento, ma anzi, ci siamo dentro fino al collo e dobbiamo in qualche modo farci i conti. Nella settimana dedicata dalle Nazioni Unite al contrasto del razzismo ti chiedo: cosa e quanto ancora c’è da fare su questo tema, sia da un punto di vista linguistico che culturale in generale?

C’è moltissimo ancora da fare. Partendo dall’episodio del Festival di Sanremo, esso ci ha dimostrato una cosa interessante, quella che quando lavoriamo sui discorsi d’odio chiamiamo ingiustizia discorsiva. Essa consiste nel fatto che chi è razzializzato può anche avere diritto a uno spazio discorsivo, ma le sue parole non hanno la stessa potenza, lo stesso diritto a esistere e la stessa visibilità di quelle pronunciate da chi costruisce l’immaginario razzista. Questo avviene spesso minimizzando l’impressione dello sbilanciamento che la persona razzializzata ha, sostenendo che magari stia esagerando, che sia tutto solo uno scherzo, qualcosa da prendere alla leggera. Chi subisce, invece, non solo viene razzializzato ma ha proprio uno spazio discorsivo pubblico ridotto. Peraltro, consideriamo il fatto che in una cornice come il Festival di Sanremo le co-conduttrici donne sono sempre poste in situazioni di ingiustizia discorsiva a prescindere dalla razzializzazione, soprattutto perché non conducono davvero tutta la manifestazione ma hanno diritto a piccoli spazi ritagliati spesso a orari infelici.

Noi come Rete cerchiamo di muoverci nella prevenzione e nel contrasto ai discorsi d’odio a diversi livelli. Innanzitutto, cerchiamo di capire le dinamiche sottese ai discorsi d’odio stessi: non si tratta solo di alcune parole chiave o espressioni, si tratta di comprendere le dinamiche implicite che, se non ti vengono fatte esplicitamente notare, faresti fatica a riconoscere, e c’è moltissimo bisogno di farlo. In secondo luogo, c’è una grande necessità – e anche Vera Gheno usa questa metafora – di “aprire le teche dei musei”, cioè di non creare spazi protetti, riserve per le persone razzializzate, anche se a volte gli spazi riservati sono stati funzionali a far emergere un certo tipo di discorso (pensa alla letteratura della migrazione a cui l’editoria ha dedicato uno spazio specifico circa trent’anni fa, ad esempio): ciò a cui dovremmo tendere oggi è piuttosto la creazione di uno spazio plurale di dialogo paritetico.

A mio avviso, per trovare una soluzione bisogna utilizzare gli strumenti di cui siamo in possesso a vari livelli e con un piglio critico: aprendo prima di tutto alle contronarrazioni in tutti i modi in cui è possibile (strumenti legali, penali quando servono, ma anche strumenti educativi di prevenzione). Questo si allaccia bene, credo, anche al tema del libro, che in effetti è stato pensato con due scopi. Prima di tutto uno scavo culturale, storico, di lunga durata, che cerca di interrogarsi su un motivo chiave dell’umanità attraverso le fonti. In seconda battuta, però, ho voluto che il mio libro ponesse anche un problema di metodo sulla ricerca di questo tipo. Lo scavo filologico, che vada a interrogare le fonti, viene affrontato con un approccio metodologico contemporaneo, anche comune ad altre discipline, che va a indagare testi diversi dal punto di vista semiotico, quindi non solo e non necessariamente fonti scritte e non solo fonti euro-centriche. Secondo me questo è un tentativo che dobbiamo fare per allontanare la possibilità di rispondere solo a slogan con altri slogan (“L’Italia è un paese razzista” VS “L’Italia è un paese accogliente”, ad esempio): sul momento le contronarrazioni per slogan possono anche funzionare, specie sui social e specie se hanno una risonanza ampia, ma non servono a scardinare i sistemi culturali razzializzanti. Per eliminare il razzismo sistemico, invece, il lavoro dev’essere più profondo, proprio filologico: serve capire come è successo e perché è successo, e per farlo occorre far emergere continuità e discontinuità. Altrimenti ci troviamo a inseguire agende dettate da altri, o dettate dalla contingenza del momento, mentre quello che serve davvero non è eliminare la parola razzista o la nword e sostituirla con un asterisco, non è rispondere colpo su colpo a delle sollecitazioni momentanee della contemporaneità, ma è interrogare un sistema culturale per trovare delle alternative vere di racconto del mondo e della storia. Certo, le battaglie si conducono anche “correndo appresso” alle notizie: come Rete, se c’è un episodio abnorme, brutale, dobbiamo essere in grado di fornire una risposta “a caldo”, immediata e puntuale, anche e soprattutto per non lasciare sole le persone che subiscono questo attacco. Il lavoro vero, però, è quello intellettuale: bisogna avere delle categorie interpretative nostre, nuove e de-razzializzate, che non siano né quelle dettate dalla moda del momento ma neppure quelle utilizzate da chi invece queste categorie le usa per discriminare. Spero proprio con questo libro di aver quindi anche posto questa questione di metodo, che rappresenta di fatto la sfida di oggi. Credo che la Rete che abbiamo costruito vada proprio nel senso della pluralità e della ricomposizione dell’ingiustizia discorsiva: è una rete fatta di tante persone, spesso razzializzate, che hanno diversi approcci e diversi vissuti, e cerchiamo sempre di non parlare al posto di queste persone, ma di parlare con loro, e questo trovo che già sia una grande innovazione dal punto di vista metodologico. Allo stesso tempo, però, c’è un urgente bisogno di andare con serietà a tutte le fonti, analizzarle in maniera puntuale e consapevole e accorgerci della potenza che il linguaggio ha avuto in tutta questa costruzione di un sistema per essere in grado di disarticolarlo, di decostruirlo partendo da un’analisi critica del discorso, e credo proprio che con la Rete stiamo provando a fare tutto questo per trovare soluzioni che siano altrettanto sistemiche.

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