“Giustizia sociale”, un cammino giuridico-lessicale (ancora in corso)
di Gabriele Maestri, dottore di ricerca in Teoria dello Stato e in Scienze politiche
Gli appuntamenti periodici, oltre che a segnare il fluire del tempo che scorre, di solito sono concepiti per suscitare riflessioni su determinati temi, oltre che sulle parole che si usano per comunicarlir. Vale per le ricorrenze più note e praticate, come il Giorno della Memoria celebrato il 27 gennaio, e vale per quell’euro che ancora non hanno ottenuto all’interno della società la risonanza e l’attenzione che meriterebbero. Sembra il caso della Giornata internazionale della Giustizia Sociale, istituita il 26 novembre 2007 sempre dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite e che si celebra il 20 febbraio.
Proprio l’espressione “giustizia sociale” merita la nostra attenzione, soprattutto per l’uso del primo termine cui molte persone sono abituate da tempo. La parola “giustizia”, difatti, sempre più spesso viene intesa – utilizzando le accezioni del “Nuovo De Mauro” – come “facoltà, potere di applicare le leggi con provvedimenti aventi forza esecutiva” o come “l’esercizio di tale facoltà”; altrettanto di frequente è riferita all'”autorità che è depositaria di tale potere e gli organi che ne eseguono le decisioni”, dunque in primo luogo ai giudici, chiamati a decidere (ius dicere), e alle forze dell’ordine, cui spetta dare esecuzione a quelle decisioni o comunque cooperare perché a quelle decisioni si pervenga. Non manca chi accosta al concetto di “giustizia”quello di “legalità”, che evoca piuttosto l’idea di conformità dei comportamenti umani a quanto previsto da disposizioni e norme, quel “rispetto delle regole” invocato nelle vicende quotidiane come in circostanze ben più delicate (si pensi all’uso frequente della parola “legalità” come opposto rispetto alla criminalità organizzata e alle mafie).
In questo modo, tuttavia, si rischia di perdere di vista il significato originario del termine (che non a caso è indicato per primo dallo stesso dizionario curato da Tullio De Mauro): quello di “valore, principio etico che consiste nel riconoscere e rispettare i diritti di ogni singolo individuo, valutando correttamente i meriti e le colpe di ognuno”. In fondo è questo, se ci si pensa bene, il senso che conserva tuttora l’aggettivo “giusto”, al punto da dare l’impressione che il concetto di iustumabbia generato quello di ius (anche se la morfologia suggerisce l’opposto).
Nella Costituzione il termine “giustizia” ricorre più volte, maquasi sempre nei primi significati che sono stati richiamati in questo testo; fa eccezione solo l’articolo 11, nel quale si legge che l’Italia, tra l’altro, “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”. Di quellaparola, invece, non c’è traccia nell’articolo 3, quello che fissatra i principi fondamentali della Repubblica italiana l’eguaglianzaformale (al primo comma) e l’eguaglianza sostanziale (al secondo comma). Vale la pena riprendere quelle poche righe, per soppesarne ogni parola:
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Leggere insieme gli articoli 3 e 11 della nostra Costituzione consente di ritrovare un terreno di coltura molto simile a quello che, sessant’anni dopo e ovviamente su scala mondiale, ha fatto nascere la Risoluzione dell’Assemblea generale Onu: in essa al primo punto si riconosce che
lo sviluppo sociale e la giustizia sociale sono indispensabili per il raggiungimento e il mantenimento della pace e della sicurezza all’interno e tra le Nazioni e che, a loro volta, lo sviluppo sociale e la giustizia sociale non possono essere raggiunti in assenza di pace e sicurezza o in assenza di rispetto per tutti i diritti umani e le libertà fondamentali.
I paragrafi successivi introducono temi nuovi rispetto al testo italiano del 1947 (lo sviluppo sostenibile con cui deve fare i conti la pur necessaria crescita; le opportunità, come pure le insidie, offerte dalla globalizzazione), salvo poi tornare a questioni che erano ben note a madri e padri costituenti. La Risoluzione, infatti, “riconosce la necessità di consolidare ulteriormente gli sforzi della comunità internazionale nell’eliminazione della povertà e nella promozione della piena occupazione e del lavoro dignitoso, della parità di genere e dell’accesso al benessere sociale e alla giustizia per tutti”: è facilissimo ritrovarvi traccia dellanecessità di rimuovere “gli ostacoli di ordine economico e sociale” che in concreto “impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale”, portando avanti insieme istanze individuali e collettive.
Del resto, se si ha voglia di fare qualche ricerca nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, si può trovare più volte evocato il concetto di “giustizia sociale”. Il 6 marzo 1947 Lelio Basso ricordava che libertà e giustizia sociale erano “due momenti inscindibili della stessa aspirazione umana” e che, in particolare, perseguire la giustizia sociale era necessario perché “questa dignità umana, questa persona umana, questi diritti di libertà, non si difendono soltanto con gli articoli di una legge scritta sulla carta, ma traducendo in realtà effettiva gli articoli della legge”. Pure Aldo Moro, giusto una settimana dopo, riconosceva nella libertà e nella giustizia sociale la “sostanza”, la“base comune” che aveva unito coloro che stavano contribuendo alla stesura della Carta costituzionale, al di là delle loro distanze politiche e ideologiche.
Non ci si stupisce poi di trovare citata la giustizia sociale in interventi relativi al lavoro, all’attività economica, allapartecipazione paritaria delle donne (penso soprattutto alle parole di Teresa Mattei sul secondo comma dell’articolo 3, nel quale volle che fosse specificato che occorreva rimuovere gli ostacoli economici e sociali che limitano “di fatto” libertà ed eguaglianza) e all’istruzione (spicca la relazione di Moro, sullapossibilità per le persone meritevoli di accedere ai gradi più alti della formazione, perché tutta la società ne tragga vantaggio).
Ben prima dell’avvento della globalizzazione e su scala solo nazionale, era ben chiara la consapevolezza della giustizia come ”animo […] di ferma volontà di rendere a ciascheduno sua ragione, servando la comune utilitade”, come si poteva leggere già nellaseconda metà dell’Ottocento nel Dizionario della lingua italianacurato da Nicolò Tommaseo e Bernardo Bellini. Qui la “ragione” non doveva e non deve intendersi come il semplice contrario del torto con riguardo a due o più persone in lite, ma conteneva e contiene anche (se non soprattutto) la concreta possibilità per un soggetto o per un gruppo di raggiungere il “proprio posto” nella società, senza restare o essere ricacciat* indietro. Non poco si è fatto, ben di più resta da fare (anche perché, nel frattempo, le sfide e le in-giustizie sono aumentati o hanno assunto forme subdole). Per questo, 76 anni dopo la scrittura dellaCostituzione e 16 anni dopo l’istituzione della Giornatainternazionale della Giustizia sociale, c’è ancora bisogno di impegnarsi attivamente perché libertà, giustizia sociale, pace e sicurezza camminino insieme.