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Licenziamento per superamento del comporto e discriminazione indiretta del lavoratore disabile: un tema di giustizia sociale

Diversity & Inclusion - Giornate Internazionali - Giurisprudenza - Massimiliano De Falco - 20 Febbraio 2023

La computabilità delle assenze per malattia, riconducibili alla disabilità del prestatore, nel periodo di comporto suscita, da tempo, un ampio dibattito. Sovente, il quesito viene sollevato in giudizio da quei lavoratori disabili che impugnano il licenziamento loro comminato per superamento del comporto ex art. 2110 c.c., sostenendo che l’applicazione del medesimo limite temporale previsto per i colleghi (non disabili) costituisce una discriminazione indiretta, allorché la disabilità li espone al maggior rischio di contrarre patologie e, quindi, a un potenziale maggior numero di giorni di astensione dal lavoro.

Se, per le malattie professionali, vige il divieto (oramai consolidato in giurisprudenza) della compensatio lucri cum danno, per cui il datore responsabile dell’evento dannoso non può computare nel periodo di comporto le assenze derivanti dall’evento stesso (cfr. Cass., 4 marzo 2022, n. 7247), il quadro appare ben più complesso ove i prestatori si assentino per una malattia connessa alla loro disabilità, sforando il limite del comporto individuato dal contratto collettivo di lavoro.

 

La nozione di discriminazione indiretta fondata sulla disabilità

Per meglio comprendere la tesi sostenuta dai lavoratori, si deve, anzitutto, chiarire cosa si intenda per discriminazione indiretta fondata sulla disabilità.

Nel diritto del lavoro, il riferimento normativo va ricercato nell’art. 2, lett. b), della Dir. 2000/78/CE sulla «parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro», a cui è stata data attuazione, nell’ordinamento interno, con il D. Lgs. n. 216/2003. In particolare, sussiste una discriminazione indiretta fondata sulla disabilità quando una disposizione apparentemente neutra possa mettere in una posizione di particolare svantaggio la persone disabile, a meno che: i) tale disposizione sia oggettivamente giustificata da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari; o che ii) il datore di lavoro sia obbligato dalla legislazione nazionale ad adottare soluzioni ragionevoli, per ovviare agli svantaggi provocati dalla disposizione[1].

Quanto a questa ultima disposizione, si rammenta come l’art. 3, co. 3-bis, D. Lgs. n. 216/2003 – di recepimento dell’art. 5, co. 3, della Direttiva[2] – abbia statuito gli «accomodamenti ragionevoli» nei luoghi di lavoro, imponendo ai datori (pubblici e privati) di adottare modifiche e adattamenti necessari ed appropriati, in funzione delle esigenze concrete delle persone con disabilità, per garantire loro il diritto al lavoro su base di uguaglianza con gli altri. Coerentemente con tale previsione, la L. n. 18/2009, di ratifica della Convenzione ONU sui «diritti delle persone con disabilità», ha espressamente ricompreso nella nozione di discriminazione fondata sulla disabilità[3] il «rifiuto di accomodamenti ragionevoli» da parte del datore, integrando, così, una prassi inclusiva a tutela di una categoria vulnerabile di prestatori, che versa in una situazione di oggettiva e incolpevole difficoltà.

L’unica esimente per sottrarre la parte datrice dall’introduzione di tali adattamenti attiene alla antieconomicità della soluzione medesima: invero, la tensione è verso misure che non impongano un «onere finanziario sproporzionato»[4] rispetto alle dimensioni, alle risorse e allo “stato di salute” dell’impresa, stante le esigenze di continuità aziendale e di «mantenimento degli equilibri finanziari» (cfr. Cass., 23 febbraio 2021, n. 4896). In ogni caso, la Dir. 2000/78/CE stabilisce che la misura non è «sproporzionata» se il sacrificio economico «è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili» (art. 5).

Al limite espresso della “non sproporzione” si affianca, poi, quello – ulteriore, poiché dotato di autonoma valenza letterale – dell’aggettivo che qualifica l’accomodamento come “ragionevole”, in quanto non può escludersi che «anche in presenza di un costo sostenibile per l’impresa [vi possano essere] circostanze di fatto che rendano la soluzione priva di ragionevolezza» (cfr. Cass., 9 marzo 2021, n. 6496). Pertanto, per valutare il corretto adempimento dell’obbligo, si dovrà soppesare, in concreto, tanto l’interesse del prestatore verso un lavoro confacente alla disabilità, quanto l’interesse del datore a garantirsi di una prestazione lavorativa, anche parziale, che sia utile per l’impresa [5].

 

Gli (opposti) orientamenti giurisprudenziali

Come cennato in apertura, la questione relativa al conteggio delle assenze per malattia riconducibili alla disabilità nel periodo di comporto rappresenta l’oggetto di un animato dibattito, che, ancora oggi, conosce esiti fra loro discordanti nelle aule dei Tribunali.

Da un lato, si osservano casistiche giurisprudenziali che hanno inteso accogliere le istanze dei lavoratori, chiarendo come l’esercizio del potere datoriale di recedere dal contratto per superamento del periodo di comporto costituisca applicazione di una disposizione apparentemente neutra (la normativa sul comporto), che, però, si rivela idonea a penalizzare il prestatore con disabilità, ove le assenze siano collegate a questa sua caratteristica personale[6]. Seguendo tale ipotesi interpretativa, graverebbe sulla parte datrice l’onere di provare che l’intero periodo di astensione dal lavoro sia indipendente dalla disabilità (cfr., ex multis, Trib. Milano, 28 ottobre 2016, n. 2875, Trib. Verona, 22 marzo 2021 e Trib. Mantova, 22 settembre 2021, n. 126). Nella medesima direzione, si collocano i giudizi che, ribadendo la cogenza del disposto di cui all’art. 3, co. 3-bis, D. Lgs. n. 216/2003, hanno sostenuto che il datore sia obbligato a comunicare preventivamente all’interessato l’avvicinarsi della scadenza dell’ultimo giorno di comporto, per un eventuale (e ragionevole) prolungamento dello stesso (cfr. Trib. Santa Maria Capua Vetere, 11 agosto 2019, n. 20012). Nondimeno, vi sono vicende ove emerge come le regole contrattual-collettive in materia di comporto debbano prevedere un contemperamento perequativo, contemplando una disciplina particolare e di maggior favore per i lavoratori con disabilità, sì da evitare discriminazioni indirette in danno a questi ultimi (App. Milano, 9 dicembre 2022, n. 1128).

Dall’altro lato, invece, si riscontrano pronunce rese a favore della controparte datoriale, motivate in ragione del fatto che non vi è alcuna norma di legge che preveda un intervallo di comporto più ampio per i lavoratori disabili e che a tale vuoto normativo non possa supplire il giudice (Trib. Parma, 17 agosto 2018, ord.), oppure fondate sull’assunto per cui la tutela antidiscriminatoria dovrebbe essere esclusa nei casi in cui il dipendente sia già adibito a mansioni compatibili con la sua ridotta capacità lavorativa, in base a una ragionevole scelta organizzativa del datore (cfr. Trib. Bologna, 19 maggio 2022, n. 230 [7]). Altra giurisprudenza, inseritasi lungo questo filone, ha, poi, rilevato come sussisterebbe una discriminazione indiretta solo se il contratto collettivo prevedesse, per i lavoratori disabili che si assentano a causa di una malattia connessa al loro “status”, un trattamento di minor favore rispetto a quello applicato ai colleghi non disabili (cfr. Trib. Lodi, 12 settembre 2022, n. 19). Altresì, vi sono decisioni in cui la magistratura ha ritenuto che l’ordinamento disponga già un apparato di garanzia del diritto al lavoro dei disabili e che esso compensi la mancata inclusione delle assenze per malattie connesse alla disabilità nel periodo di comporto (cfr. App. Torino, 3 novembre 2021, n. 604), o in cui è stata affermata l’inesigibilità di tale condotta datoriale, ove il prestatore non abbia preventivamente comunicato le patologie invalidanti nelle apposite caselle apposte sul certificato medico (cfr. Trib. Vicenza, 27 aprile 2022, n. 181). Nondimeno, ai fini della applicazione della Dir. 2000/78/CE, si è escluso che la malattia (in quanto temporanea) integri la stato di “handicap”, il quale è, al contrario, riscontrabile solamente quando sia stata certificata dall’INPS una invalidità permanente (cfr. Cass. civ., 28 ottobre 2021, n. 30478).

 

Disabilità e malattia: quali connessioni?

L’ultima considerazione giurisprudenziale poc’anzi richiamata invita a riflettere sul rapporto intercorrente fra malattia e disabilità. I concetti, ovviamente, non sono sinonimi: nel primo caso, l’evento determina un impedimento assoluto del dipendente a prestare la propria attività lavorativa; nel secondo caso, invece, la caratteristica della persona potrebbe essere idonea a limitare la capacità lavorativa, senza escluderla, ove le condizioni di contesto, unitamente a quelle soggettive, siano ostative alla piena partecipazione al lavoro.

Infatti, con il superamento dell’iniziale sistema classificatorio dell’OMS[8] e con l’adozione del «modello biopsicosociale della disabilità», essa non possiede più carattere medico, bensì di tipo relazionale, e considera cioè i processi di esclusione determinati dall’ambiente esterno. In questi termini, la disabilità risiede, oggi, nella «interazione» tra le «durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali [della persona e le] barriere di diversa natura [che ne ostacolano] la piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri» (art. 1, co. 2, Conv. ONU, 2006).

Sicché, anche in presenza di una menomazione (o di una malattia[9]), non sussiste disabilità se le condizioni dell’ambiente di lavoro consentono di svolgere le normali attività su base di uguaglianza con gli altri. Viceversa, vi è disabilità quando le barriere ivi presenti limitano l’accessibilità e, quindi, la piena realizzazione della persona.

Rispetto alla questione qui affrontata, occorre precisare come i lavoratori disabili non siano necessariamente affetti da patologie che determinino lunghi periodi di assenza, mentre vi possono essere lavoratori non disabili che, nondimeno, soffrono di malattie croniche. Tuttavia, anche di fronte al consolidamento della riconducibilità della condizione della persona affetta da malatta cronica alla nozione di disabilità[10], pare non potersi ritenere aprioristicamente che sussista una discriminazione indiretta nell’indistinta applicazione dei criteri di calcolo del superamento di comporto a tutti i lavoratori (disabili e non), ma che occorra sempre verificare, caso per caso, se le assenze dal lavoro dipendano o meno dalla condizione soggettiva della persona.

 

Considerazioni conclusive

Il 2023 ha visto assunte due decisioni nei primi giorni dell’anno (Trib. Parma, 9 gennaio 2023, n. 1 – peraltro, di opposizione verso la citata ordinanza del 17 agosto 2018 – e Trib. Napoli, 17 gennaio 2023, n. 168) che hanno, specularmente, censurato le condotte datoriali, dichiarando la nullità degli atti risolutori intimati ai due lavoratori, assunti ai sensi della L. n. 68/1999, le cui assenze per malattia erano state computate nel periodo di comporto, nonostante le stesse fossero connesse dalla disabilità dei dipendenti. A parere dei giudici, nei casi in cui il criterio di calcolo delle astensioni dal lavoro ai fini del comporto non distingue fra le assenze legate alla disabilità e le generiche assenze per malattia, ha luogo una discriminazione indiretta quando, in concreto, sia dimostrato che almeno parte delle assenze sia direttamente riconducibile alla disabilità stessa.

Ferma la necessità, in ogni ipotesi di licenziamento per sopravvenuta inidoneità alle mansioni contrattualmente convenute, o per aggravamento dell’originaria disabilità, di adibire il lavoratore «a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori» (art. 4, co. 4, L. n. 68/1999[11]), nonché di introdurre tutti gli adattamenti praticabili in ordine alle esigenze concrete della persona che lavora (art. 3, co. 3-bis, D. Lgs. n. 216/2003 [12]), siffatta posizione ermeneutica pare rispettosa dei principi espressi in sede comunitaria e già recepiti nell’ordinamento interno. Ancor più, facendo salva la verifica, caso per caso, dei parametri della “non sproporzionalità” e della “ragionevolezza” sopra richiamati, si ritiene che il prolungamento del periodo di comporto, a favore di quei lavoratori che si astengono dal lavoro per una malattia connessa alla loro disabilità, possa costituire un accomodamento imprescindibile, per porre rimedio alle discriminazioni indirette che si realizzano nei luoghi di lavoro.

Ricorrendo, oggi, la Giornata mondiale della Giustizia Sociale – a cui il diritto del (e al) lavoro tende, in quanto diretto a garantire l’equo accesso alle opportunità che la società offre – urge un passo avanti. Nella pur apprezzabile estensione del periodo di comporto, introdotta dalle parti sociali in alcuni settori[13], l’auspicio è che il legislatore e/o la contrattazione collettiva prevedano apposite sovvenzioni e strumenti di sostegno per i datori che escludono dallo stesso le assenze connesse alla disabilità dei lavoratori[14]: così facendo, si potrebbero realizzare ulteriori misure di accomodamento, ragionevoli e non sproporzionate, in quanto, appunto, compensate «in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili» (art. 5, Dir. 2000/78/CE) e, al contempo, si potrebbe dare certezza al sistema e ai soggetti coinvolti.

[1] Alle vittime di discriminazioni – dirette o indirette – fondate sulla disabilità, l’ordinamento nazionale offre il ricorso a una peculiare tutela giudiziaria, disciplinata dalla L. n. 67/2006.

[2] Nonostante l’impulso della Direttiva – a cui, peraltro, nei medesimi termini, fece seguito la Convenzione delle Nazioni Unite del 13 dicembre del 2006 sui «diritti delle persone con disabilità» – l’introduzione di tale comma avvenne solo a seguito della condanna inflitta all’Italia dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea (sentenza 4 luglio 2013, causa C-312/11) per insufficiente trasposizione dell’art. 5, Dir. 2000/78/CE.

[3] Per cui, ai sensi dell’art. 2 della citata Conv. ONU 2006, si intende «qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione […] che abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali».

[4] Il Considerando 21 della Dir. 2000/78/CE chiarisce che «per determinare se le misure in questione danno luogo a oneri finanziari sproporzionati, è necessario tener conto in particolare dei costi finanziari […] che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell’organizzazione o dell’impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni».

[5] Per una più ampia trattazione delle clausole di “non sproporzionalità” e di “ragionevolezza” qualificanti gli accomodamenti ragionevoli, sia consentito il rinvio a M. De Falco, La CGUE rafforza il repêchage del “lavoratore-tirocinante” divenuto inidoneo alla mansione, qui.

[6] A supporto della ipotesi interpretativa addotta dai prestatori, occorre rammentare come la Corte di Giustizia dell’Unione europea (dapprima con la richiamata sentenza del 4 luglio 2013 e, successivamente, con la sentenza 18 gennaio 2018, causa C-270/16), pur esprimendosi su casi facenti capo ad altri Stato membro, abbia statuito che «un lavoratore disabile è, in linea di principio, maggiormente esposto al rischio di [essere licenziato, in quanto] rispetto a un lavoratore non disabile […] è esposto al rischio ulteriore di assenze dovute a una malattia collegata alla sua disabilità [risultando], dunque, che la [normativa sul comporto] è idonea a svantaggiare i lavoratori disabili e, quindi, a comportare una disparità di trattamento indirettamente basata sulla disabilità ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della Direttiva 2000/78».

[7] Adesivamente, App. Palermo, 14 febbraio 2022, n. 111, che ha richiamato alcuni precedenti della Suprema Corte (Cass., 20 marzo 1990, n. 2302; Cass., 16 aprile 1986, n. 2697) per stabilire che, «alla stregua della L. n. 482 del 1968, art. 10, comma 1, (sulla disciplina generale delle assunzioni obbligatorie), il quale stabilisce l’applicabilità agli assunti in quota obbligatoria del normale trattamento economico e giuridico, è da escludere la detraibilità dal periodo di comporto delle assenze determinate da malattia ricollegabile allo stato di invalidità».

[8] Pur dovendosi escludere una «assimilazione pura e semplice delle nozioni di handicap e malattia» (così Corte di Giustizia dell’Unione europea, sentenza 11 luglio 2006, C-13/05), è stato ammesso che all’origine della limitazione possa  esservi anche una malattia curabile ovvero cronica, a condizione che le menomazioni da essa prodotte siano durature (Corte di Giustizia dell’Unione europea, sentenza 11 aprile 2013, C-335/11 e 337/11).

[9] Nel cd. «modello medico» elaborato dall’OMS nel 1980, la disabilità era percepita quale sinonimo di menomazione e, pertanto, equiparata ad anormalità fisiologiche o psicologiche, idonee a ridurre la «capacità di compiere un’attività della vita quotidiana nella maniera considerata normale per un essere umano». Di tal guisa, era stato posto l’accento solamente sugli elementi che condizionano in negativo la vita della persona (ossia le limitazioni psicofisiche e lo svantaggio sociale che ne deriva), senza mai tenere conto dell’influenza dell’ambiente nel quale essa è inserita.

[10] Cfr. S. Fernández Martínez, Equiparazione malattie croniche e disabilità: una via per riconoscere maggiori tutele ai malati cronici?, qui.

[11] Parimenti, l’art. 10, L. n. 68/1999 prescrive che il datore «non può chiedere al disabile una prestazione non compatibile con le sue minorazioni» (co. 2) e che il rapporto contrattuale può essere risolto soltanto nel caso in cui, «anche attuando i possibili adattamenti dell’organizzazione, [si] accerti la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all’interno dell’azienda» (co. 3).

[12] A tanto si aggiunga che la Corte di Giustizia dell’Unione europea (nella citata sentenza dell’11 aprile 2013) ha chiarito come le assenze che il lavoratore disabile non avrebbe fatto se il datore di lavoro avesse introdotto gli accomodamenti ragionevoli richiesti dall’art. 5 della Dir. 2000/78/CE (che, nel caso di specie, gli avrebbero consentito di continuare a lavorare) non debbano essere prese in considerazione per il calcolo del periodo di comporto.

[13] Cfr. E. Peruzzi, Per una storia della contrattazione collettiva in Italia/101 – I rinnovi dei CCNL aziende artigiane area Legno e lapidei e area Tessile moda chimica ceramica: un confronto ragionato, qui.

[14] Infatti, la Corte di Giustizia dell’Unione europea (nella citata sentenza del 18 gennaio 2018) ha chiarito come «l’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), i), della direttiva 2000/78/CE deve essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale in base alla quale un datore di lavoro può licenziare un lavoratore in ragione di assenze intermittenti dal lavoro, sebbene giustificate, nella situazione in cui tali assenze sono dovute a malattie imputabili alla disabilità di cui soffre il lavoratore, tranne se tale normativa, nel perseguire l’obiettivo legittimo di lottare contro l’assenteismo, non va al di là di quanto necessario per raggiungere tale obiettivo, circostanza che spetta al giudice del rinvio valutare».

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