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Non è discriminatorio impedire al padre di imporre pratiche religiose ai figli

Giurisprudenza - Gianluca Picco - 13 Ottobre 2022

Con la sentenza del 19 maggio 2022, la Prima Sezione della Corte EDU si è occupata di un caso italiano riguardante la legittimità delle decisioni assunte dalle autorità giudiziarie italiane, le quali hanno hanno impedito a un padre di coinvolgere la figlia nelle proprie pratiche religiose.

Nel caso in esame, i genitori non erano d’accordo sull’educazione religiosa delle figlia minore d’età, la quale aveva manifestato disagio nel partecipare alle funzioni religiose e alla pratica del servizio religioso, consistente nella divulgazione di volantini e riviste in luoghi pubblici o porta a porta.

Nell’ambito del procedimento per l’affidamento esclusivo promosso dalla madre, il Tribunale ordinava al padre di astenersi dal coinvolgere attivamente la figlia nelle funzioni e nelle attività religiose, ritenendole destabilizzanti e stressanti per la ragazza. La decisione veniva confermata dalla Corte d’Appello, garantendo al padre la possibilità di condividere i propri sentimenti religiosi, ma evitando di coinvolgere la figlia in modo attivo. La Corte di Cassazione, cui l’uomo si rivolgeva, respingeva il ricorso, sicché il genitore si rivolgeva alla Corte Edu.

Alla luce della posizione assunta dalle autorità giudiziarie italiane, egli lamentava la violazione dell’art. 14 (divieto di discriminazione) in combinato disposto con l’art. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), letto alla luce dell’articolo 9 (libertà di religione). Il ricorrente sosteneva, infatti, di essere stato trattato in modo diverso rispetto alla ex compagna in virtù della adesione a un movimento religioso. In particolare, evidenziava come le pronunce dei giudici nazionali mostrassero un pregiudizio nei confronti della religione cui aveva aderito, considerata pericolosa e, quindi, da evitare, senza che, invece, venissero parimenti indagati i convincimenti della madre.

In linea con le decisioni italiane, la Corte di Strasburgo ha escluso –  a maggioranza (cinque voti contro due) – che vi sia stata una disparità di trattamento tra i genitori sulla base del loro credo religioso.

Infatti, in primo luogo, la Corte ha ritenuto che l’ordinanza del Tribunale fosse finalizzata alla risoluzione del conflitto sorto a causa delle opinioni divergenti dei genitori sull’educazione della figlia, nel tentativo di conciliare i diritti delle parti in causa, concentrandosi soprattutto sull’interesse della minore a crescere in un ambiente aperto e sereno.

In ogni caso, secondo i giudicanti, il provvedimento non ha vietato al ricorrente di utilizzare i principi educativi nella relazione con la figlia, né gli ha impedito di prendere personalmente parte alle attività del movimento religioso abbracciato. Altresì, processualmente, al ricorrente veniva evidenziata la possibilità di poter ricorrere in ogni momento per il riesame delle decisioni emesse in via provvisoria in prime cure.

La Convenzione ONU sui diritti del fanciullo (1989) e la relazione della 70° Assemblea ONU del 2015 sulla libertà religiosa e l’eliminazione di ogni forma di intolleranza religiosa affermano i diritti e doveri dei genitori nell’educare i propri figli e nel prendere decisioni sulla loro religione, soprattutto quando gli adulti professano credi diversi tra loro.

Secondo l’art. 5 della Convenzione sui diritti del fanciullo “gli Stati parti rispettano la responsabilità, il diritto ed il dovere dei genitori o, se del caso, dei membri della famiglia allargata o della collettività, come previsto dagli usi locali, dei tutori o altre persone legalmente responsabili del fanciullo, di dare a quest’ultimo, in maniera corrispondente allo sviluppo delle sue capacità, l’orientamento ed i consigli adeguati all’esercizio dei diritti che gli sono riconosciuti dalla Convenzione”. L’art. 14, paragrafo 2, della Convenzione specifica tale principio, sancendo il dovere dei genitori di fornire indicazioni al minore nell’esercizio del suo diritto alla libertà di religione o di credo.

Pertanto, i genitori possono scegliere come educare i propri figli anche rispetto al sentimento religioso, purchè le scelte educative di ciascun genitore realizzino “l’obiettivo prioritario di tener conto dell’interesse superiore dei bambini” in un “equilibrio soddisfacente tra le concezioni individuali dei genitori, precludendo qualsiasi giudizio di valore e, ove necessario, stabilendo norme minime sulle pratiche religiose personali” (così Ilya Lyapin c. Russia, 30 giugno 2020, n. 70879/11). Nel caso in esame, questa impostazione si è tradotta nella opzione per l’educazione della minore nell’ambito della religione cattolica, ritendo così la Corte di garantirle “un ambiente sociale sano e non farla sentire diversa ed emarginata dai coetanei”.

Prevale, in tutti i casi, l’interesse della minore a “mantenere e promuovere il suo sviluppo in un ambiente aperto e pacifico, conciliando per quanto possibile i diritti e le convinzioni di ciascuno dei suoi genitori”: in questo senso, la Corte EDU non ravvisa nelle decisioni assunte alcuna discriminazione nei confronti del padre, in quanto la preclusione stabilita dalle autorità giudiziarie italiane non ha influito sulla professione di fede del ricorrente, né tantomeno suoi suoi diritti genitoriali, in quanto le visite e la custodia della minore non hanno subito mutamenti, nell’intento di preservare la minore dallo stress derivante dal tentativo paterno di coinvolgerla attivamente, anche contro la propria volontà, nelle pratiche religiose cui lui, adulto, si era invece volontariamente accostato (v. Palau-Martinez c. Francia, 16 dicembre 2003, n. 64927/01, § 39).

 

 

Per approfondire

Il testo della decisione

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