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Il femminicidio dopo il Codice Rosso: il caso Forciniti

Attualità - Francesca Pollicino - 29 Aprile 2022

Lo scorso 21 aprile si è concluso il processo a Giuseppe Forciniti per l’omicidio della compagna e madre dei suoi figli Aurelia Lauenti, celebrato dalla Corte d’Assise del Tribunale di Udine. La Corte ha condannato l’imputato alla pena di 24 anni di reclusione, nonostante il Pubblico Ministero avesse insistito per l’ergastolo. Sono possibili solo alcune preliminari osservazioni in attesa delle motivazioni della sentenza sulla quantificazione della pena, ancora troppo a ridosso dei minimi edittali.

L’imputato e la persona offesa non erano coniugati, ma conviventi da quasi 20 anni e dall’unione sono nati due figli. A seguito dell’incrinatura del rapporto e i costanti litigi, il 25 novembre 2020, durante una colluttazione con un coltello, la signora morì dopo essere stata ferita al collo e poi colpita con numerose coltellate.

Dopo essersi liberato del coltello, l’imputato si presentò in questura e raccontò della colluttazione, ammettendo quantomeno la natura colposa della profonda ferita al collo della compagna. Anche davanti al giudice, l’imputato, affermò che, nello shock dell’esito della colluttazione, perse conoscenza e non ricorda cosa sia accaduto, non sapendo ricostruire la dinamica delle ulteriori coltellate inferte alla vittima.

Si tratta chiaramente di un femminicidio, o per usare le parole del codice penale, di un omicidio di persona stabilmente convivente col colpevole o legata al colpevole da relazione affettiva (artt. 575, 577 c. 1 n. 1, come introdotto dal Codice Rosso del 2019). Il caso è il primo in Friuli Venezia Giulia, dopo la riforma del 2019.
Il femminicidio, quale omicidio di una donna nel contesto di relazioni affettive o domestiche, costituisce anche il più grave delitto di violenza di genere e atto discriminatorio.

La l. 69/2019, anche denominata Codice Rosso, ha incrementato le tutele prevedendo, tra le altre, l’omicidio di persona stabilmente convivente col colpevole o legata da relazione affettiva con quest’ultimo. Inoltre, l’art. 11 della l. 69/2019, ha apportato le seguenti modifiche alle circostanze aggravanti del delitto di omicidio di cui all’art. 577 c.p.
Al primo comma dell’art. 577 c.p. si prevede, infatti, che è punito con l’ergastolo l’omicidio del coniuge, anche legalmente separato, dell’altra parte dell’unione civile e di persona stabilmente convivente col colpevole o legata al colpevole da relazione affettiva. Questi ultimi requisiti rilevano alternativamente, mentre prima della riforma erano necessari congiuntamente.
Le modifiche al secondo comma dell’art. 577 c.p. riguardano, invece, l’aggravamento della pena della reclusione da 24 a 30 anni, se la vittima dell’omicidio è: coniuge divorziato; l’altra parte dell’unione civile, ove cessata; persona legata al colpevole da stabile convivenza o relazione affettiva, ove cessate. Inoltre, l’aggiunta di un’ulteriore comma prevede, in deroga agli ordinari criteri di bilanciamento tra circostanze, che non possono essere ritenute prevalenti sulle aggravanti, di cui al primo comma n. 1 e al secondo comma, le attenuanti generiche.

Solamente le seguenti attenuanti potranno essere invocate per richiedere una diminuzione di pena: avere agito per motivi di particolare valore morale o sociale (art. 62 n. 1 c.p.); vizio parziale di mente (art. 89 c.p.); minore età (art. 98 c.p.); le attenuanti ex art. 114 c.p. che prevedono la minima importanza di taluno dei concorrenti nella preparazione o nell’esecuzione del reato, anche se determinato a commettere il reato o a cooperarvi da un soggetto rivestito di autorità o, essendo minore o inabile, era stato da altri circonvenuto.
Di conseguenza, le attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis o l’attenuante della c.d. provocazione di cui all’art. 62 n. 2, che solitamente vengono utilizzate dall’autorità giudiziaria per ridimensionare la pena, non sono più applicabili agli omicidi commessi in contesti familiari o derivanti da rapporti affettivi.

La l. 33/2019, intervenuta a modifica dell’art. 438 c.p.p., ha escluso l’accesso al rito alternativo per i delitti per i quali la legge prevede la pena dell’ergastolo, tra i quali anche l’omicidio aggravato ai sensi degli artt. 576 e 577 co.1. L’ampio ricorso al rito abbreviato e la significativa diminuzione di pena che da esso ne discende, ha comportato in passato l’irrogazione di pene esigue con una conseguente ridotta tutela effettiva per le vittime. L’impossibilità di accedere al rito speciale vuole colmare questa lacuna, auspicando l’adozione di pene effettive e più coerenti alle definizioni edittali.

Le disposizioni del 2019 avevano chiaramente l’obiettivo di ridurre il potere discrezionale dell’autorità giudiziaria che, applicando frequentemente le attenuanti generiche, ha appiattito spesso la pena sui minimi della cornice edittale, con la massima riduzione possibile in forza delle attenuanti concesse. Non dobbiamo dimenticare che la pena svolge anche una funzione preventiva, per scongiurare la commissione di delitti, soprattutto di questa gravità. Nonostante l’inasprimento delle pene e i limiti imposti dal legislatore, i giudici sanzionano ancora con pene troppo vicine ai minimi non facendo emergere la gravità dei delitti domestici.

Una domanda sorge spontanea: quali attenuanti sono state valutate al fine di giustificare la pena di 24 anni di reclusione? Non ci resta che attendere la motivazione per tornare a riflettere sul caso.

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