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Corte EDU: ricorso irricevibile nel caso della torta con la scritta “Support Gay Marriage”

Giurisprudenza - Gianluca Picco - 15 Aprile 2022

Pronunciandosi su un caso “inglese”, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, IV sez., in data 6 gennaio 2022 (ricorso n. 18860/19),  ha ribadito che, affinché un ricorso sia ricevibile, gli argomenti a sostegno della domanda tratti dalla Convenzione EDU devono essere stati prima dedotti, esplicitamente o sostanzialmente, dinanzi all’autorità giudiziaria nazionale.

Con tale declaratoria di irricevibilità, la Corte EDU non ha così affrontato, nel merito, il caso di un cittadino britannico, associato a QueerSpace (un’organizzazione irlandese di sostegno della comunità LGBTI+). Il ricorrente, nel 2014, in occasione della “Settimana contro la Transfobia”, proclamata nell’Irlanda del Nord, Inghilterra, Scozia e Galles, aveva ordinato una torta alla pasticceria Ashers. Il dolce era destinato a un evento di attivisti e doveva riportare il logo di QueerSpace e lo slogan “Support Gay Marriage”. La pasticceria aveva rifiutato l’ordine, in quanto contraria, per motivi religiosi, al messaggio politico “Support Gay Marriage” di cui sarebbe, contro la sua volontà, divenuta promotrice.

Così, G.L., ritenendosi vittima di un comportamento discriminatorio basato sul proprio orientamento sessuale, si era rivolto al Tribunale della Contea di Belfast. La domanda era fondata sulla violazione dell’obbligo previsto dalla legge di assicurare la fornitura di beni, strutture e servizi nei confronti della pasticceria e dei suoi proprietari. I convenuti si erano difesi invocando i diritti di cui agli articoli 9 (libertà di pensiero, di coscienza e di religione) e 10 (libertà di espressione) della Convenzione EDU.

Il Giudice di primo grado, nel 2015, ha statuito che il comportamento della pasticceria costituisse una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale, sulle convinzioni religiose e opinioni politiche del ricorrente, in violazione del Fair Employment and Treatment Order del 1998 e dei regolamenti dell’Equality Act del 2006. In particolare, il Tribunale ha riconosciuto in astratto l’esistenza dei diritti tutelati dall’articolo 9 ai proprietari della pasticceria, ma allo stesso tempo ha ritenuto che costoro non avessero il diritto di manifestare le proprie convinzioni religiose in ambito commerciale qualora ciò fosse contrario ai diritti dei terzi; vieppiù, il giudicante ha evidenziato che l’articolo 10 non fosse applicabile al caso di specie, poichè la pasticceria non era tenuta a sostenere o promuovere il punto di vista di G.L. Per l’effetto, la pasticceria è stata condannata al risarcimento del danno per condotta discriminatoria.

Tale statuizione è stata confermata dalla Corte di Appello di Belfast (nel 2016), la quale ha rilevato la possibilità di abusi qualora le aziende siano libere di scegliere quali servizi fornire alla comunità gay sulla base del proprio credo religioso.

Successivamente, però, la Corte Suprema del Regno Unito – con la sentenza Lee v Ashers Baking Company Ltd and others [2018] UKSC 49 del 10 ottobre 2018 – ha ribaltato la decisione (all’unanimità), ribadendo il principio già affermato dalla Corte Suprema Americana nel caso Masterpiece Cakeshop, Ltd v. Colorado Civil Rights Commission, 584 U.S, secondo il quale nessuno può essere costretto a celebrare eventi o a esprimere messaggi in disaccordo con la propria fede religiosa e/o con le proprie personali convinzioni. Più approfonditamente, secondo la Corte, nel caso di specie, non sussisteva una discriminazione, in quanto i proprietari della pasticceria non avevano espresso dissenso rispetto alla persona del committente (in quanto gay), bensì al messaggio di cui la torta stessa avrebbe dovuto essere veicolo. Infatti, si legge che «il trattamento di sfavore non ha avuto a oggetto alcun uomo, bensì un messaggio o, meglio, un’opinione latu sensu politica: ai pasticcieri era stato chiesto di esprimere un messaggio con il quale erano profondamente in disaccordo». In altre parole, la ragione della loro obiezione non era la condizione omosessuale o l’orientamento sessuale del richiedente o dei promotori dell’evento, bensì il loro intimo convincimento in ordine al matrimonio tra persone dello stesso sesso nonché all’opportunità di promuoverlo. Richiamando la sentenza Buscarini e altri c. San Marino (n. 24645/94, Corte EDU, Grande Camera, 18 febbraio 1999), la Corte Suprema ha infatti affermato che «obbligare una persona a esprimere una convinzione che non condivide, equivale a una restrizione dei suoi diritti ai sensi dell’art. 9 della Convenzione». Pertanto, la pasticceria si è vista riconoscere il diritto a manifestare il proprio credo religioso attraverso il rifiuto a realizzare lo slogan richiesto.

Alla luce di tale decisum, il ricorrente si è rivolto alla Corte EDU, invocando l’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), l’articolo 9 (libertà di pensiero, di coscienza e di religione) e l’articolo 10 (libertà di espressione), sia da soli che in uno con l’articolo 14 (divieto di discriminazione) della Convenzione EDU, e così lamentando che vi sia stata un’interferenza con i suoi diritti da parte di un’autorità pubblica – la Corte Suprema – con la decisione di respingere la domanda per violazione dell’obbligo legale di prestare il servizio richiesto, e che l’ingerenza non fosse proporzionata.

Come anticipato, però, la Corte di Strasburgo, seppur a maggioranza, ha dichiarato il ricorso irricevibile in quanto il ricorrente non ha invocato i suoi diritti derivanti dalla Convenzione in nessuna fase del procedimento nazionale. E’ noto, infatti, che il ricorso alla Corte EDU abbia carattere sussidiario e sia esperibile solo quando risultino esaurite le vie interne di ricorso; ciò al fine di consentire alle autorità nazionali di prevenire o porre rimedio alle asserite violazioni. Invece, il ricorrente, basandosi solo ed esclusivamente sul diritto interno, ha privato i tribunali nazionali della possibilità di affrontare le questioni sottoposte al loro giudizio nel prisma della Convenzione EDU. In tal modo, si è chiesto alla Corte sovranazionale di “arrogarsi” il ruolo e le funzioni dei tribunali nazionali.

Al di là del caso esaminato, la questione assume in astratto rilievo anche nel nostro ordinamento. Infatti, l’art. 187, R.D. n. 635/1940 prevede espressamente che «salvo quanto dispongono gli artt. 689 e 691 del codice penale, gli esercenti non possono senza un legittimo motivo, rifiutare le prestazioni del proprio esercizio a chiunque le domandi e ne corrisponda il prezzo».

Il tema è di particolare interesse e delicatezza, tanto da essere approdato anche all’attenzione della nostra Corte costituzionale. Questa, infatti, con la sentenza 4 luglio 2006, n. 253, si è occupata della legge della Regione Toscana 15 novembre 2004, n. 63 (“Norme contro le discriminazioni determinate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere”), la quale era finalizzata a consentire a ogni persona la libera espressione del proprio orientamento sessuale e della propria identità di genere, promuovendo il superamento delle situazioni di discriminazione nei settori della formazione professionale e delle politiche del lavoro, della sanità, delle attività turistiche e commerciali, fondate sulla diversità sessuale. In particolare, per quanto di interesse, l’art. 16, commi 1 e 4, della legge citata prevedeva il divieto per gli operatori commerciali appartenenti a determinate categorie di rifiutare la loro prestazione, o di erogarla a condizioni deteriori rispetto a quelle ordinarie, «senza un legittimo motivo e, in particolare, fra l’altro per motivi riconducibili all’orientamento sessuale o all’identità di genere»; in caso di violazione, vi era la previsione di una sanzione amministrativa. Veniva così imposto ai soggetti indicati l’obbligo di fornire la propria prestazione a chiunque ne facesse richiesta, senza possibilità di discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale.

Il Giudice delle leggi, però, con la sentenza citata, ha ritenuto fondato il ricorso del Governo, che aveva evidenziato che tali disposizioni, nella parte in cui introducevano un regime sanzionatorio amministrativo a carico di esercenti di pubblici servizi e di operatori turistici e commerciali che, nello svolgimento delle loro attività, discriminassero gli utenti «per motivi riconducibili all’orientamento sessuale o all’identità di genere», esulavano dalla potestà legislativa regionale, atteso che la competenza sanzionatoria si ricollega a quella sulla materia cui la sanzione afferisce che, nel caso di specie, risultava carente. Quindi, nel caso di specie, la Corte costituzionale ha rilevato che la norma regionale oggetto di vaglio, nel prevedere un’ipotesi di obbligo legale a contrarre (obbligo già previsto in via generale all’art. 187, R.D. n. 635/1940), alla cui violazione è connessa una sanzione di natura amministrativa, introduceva una disciplina che incideva sull’autonomia negoziale dei privati e, quindi, su una materia di competenza esclusiva dello Stato (art. 117, comma 2, lett. l), Cost.). All’illegittimità della disposizione che prevedeva l’obbligo a contrarre è seguita – considerato il parallelismo tra potere di predeterminazione delle fattispecie e potere di determinare la sanzione (v. Corte cost., sent. n. 361/2003) – anche l’illegittimità della previsione sanzionatoria.

Per approfondire

Testo della decisione

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