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Sfruttamento in agricoltura e precarietà: una questione (anche) di genere

Attualità - Nicola Deleonardis - 19 Marzo 2022

 

Sono trascorsi quasi 7 anni da quel 13 luglio 2015, quando la bracciante Paola Clemente esalò il suo ultimo respiro durante una giornata di lavoro nelle campagne di raccolta pugliesi. Una giornata lavorativa che avrebbe prodotto una manciata di euro l’ora e il versamento dei contributi necessari a garantirle l’indennità di disoccupazione per (soprav)vivere.

Tale notizia non rappresenta certo una novità. Lo sfruttamento della manodopera femminile si ripropone indefettibilmente nella parabola storica del lavoro in agricoltura, marchiando a fuoco il lavoro delle donne (sul tema, in generale v. E. Betti, Precarie e precari. Una storia dell’Italia repubblicana, Carocci Editore, 2019).

Già nel 1891 Angiolo Cabrini, futuro sindacalista della Confederazione Generale del Lavoro, forniva un quadro sulle condizioni di lavoro nelle risaie, quando il caporale (definito “negriero”) aveva la funzione di reclutare “l’esercito delle risaiuole, a partire dalle quattordicenni per arrivare alle vedove. La mercede per quaranta giorni di lavoro oscilla dalle 25 alle 38 lire, in relazione evidentemente alla forza muscolare di donne destinate a diventare “ischeletri ambulanti”” (V. A. Cabrini, La vita delle risaiuole. Episodio della tratta delle bianche nella democrazia capitalistica, in Critica sociale, 1891, 1, p. 130 ss.; sul tma, v. anche S. Musso, Le regole e l’elusione. Il governo del mercato del lavoro nell’industrializzazione italiana (1888-2003), Rosenberg & Sellier, 2012, p. 23-27).

Il mercato (agricolo) di piazza ha sempre attinto dalla manodopera femminile, rappresentando una buona parte della forza lavoro a basso costo del bracciantato meridionale (V. Abbattista, Appunti di un ex bracciante sulle lotte bracciantili in terra di Bari (1943-1977), Bari, Federbraccianti CGIL, 1978, p. 56).

L’inferiorità del salario corrisposta alle donne non era riconducibile a una effettiva difformità della prestazione lavorativa offerta, ma era legata a persistenti “funzioni di genere” che, prescindendo dall’effettiva capacità professionale, offrivano l’opportunità di contrarre i costi del lavoro e aumentare le quote di profitto (Federbraccianti, La politica contrattuale della Federbraccianti per i lavoratori agricoli dipendenti, SETI, 1967, p. 28).

Il fenomeno della precarietà in agricoltura, sebbene potesse ritenersi trasversale a tutti i lavoratori, mette in luce come ci fossero categorie maggiormente soggette a sfruttamento. Provando a rileggere le informazioni possedute alla luce del presente, emerge che sino agli inizi degli anni Ottanta il fenomeno dell’immigrazione non esercitasse ancora una forte pressione sulle dinamiche occupazionali del settore. Gli studi condotti dal sociologo E. Pugliese, infatti, evidenziavano che la presenza di lavoratori stranieri, soprattutto tunisini, non fosse così elevata (Cfr. E. Pugliese, I braccianti agricoli in Italia: tra mercato del lavoro e assistenza, F. Angeli, 1984, p. 40). Il sociologo rilevava che non si potesse ancora parlare di vera e propria migrazione ma di pendolarismo, che coinvolgeva altre categorie deboli del mercato del lavoro, ossia giovani e, soprattutto, donne, le quali rappresentavano circa il 38% della forza-lavoro agricola, dislocate soprattutto a Sud (E. Pugliese, Op. cit., p. 36).

Lo sfruttamento delle lavoratrici agricole era già ben noto, ma è soprattutto a partire dagli anni Sessanta che si consolida l’interesse sindacale, evidente nelle piattaforme rivendicative del decennio (v. F. Rossitto, Oggi, nelle campagne, la condizione femminile (1977), in Federbraccianti (a cura di), Feliciano Rossitto. Scritti e discorsi (1970-1977), ESI, 1981, p. 655; I. Milanese, La bracciante, in Rassegna Sindacale, 12-26 novembre 1972).

Tale rinnovata prospettiva fa i conti con una maggiore richiesta di manodopera flessibile che, stazionando a fasi alterne tra lavoro (agricolo) e non lavoro, soprattutto in mancanza di alternative, era funzionale a soddisfare le esigenze imposte dalla stagionalità delle colture esistenti nel territorio (F. Botta, Il mercato del lavoro in Puglia, Ipotesi interpretative, in Sviluppo e occupazione. Un’analisi del mercato del lavoro in Puglia, Bari, Ed. del Sud, 1982, p. 23). Nella Puglia degli anni Ottanta, il 46,7% degli occupati in agricoltura (tra dipendenti, contadini e coadiuvanti) è di genere femminile; un dato ancor più elevato (49,3%) se si considerano esclusivamente i lavoratori dipendenti del settore primario (E. Rebeggiani, Il lavoro agricolo nelle province meridionali, in Rivista di economia agraria, 1982, 3, p. 605 ss.). Ad esempio, la forte richiesta di lavoro nella zona del brindisino proveniva dalle donne, quale ripiego dovuto alla mancanza di altri lavori volto ad integrare il reddito familiare (G. Cairoli, Brindisi: lavoro, salute, partecipazione alla vita sociale. Questo vogliono le braccianti, in Lotte agrarie, 1980, 12). Ciò non comportava uno stato di rassegnata accettazione delle braccianti pugliesi: un altro studio – sempre nel brindisino – dimostra come le braccianti fossero consapevoli delle effettive sperequazioni tra uomo e donna, sia in ambito professionale, sia nella dimensione pubblica e privata (M. Raspini, Condizioni di vita e di lavoro delle braccianti pugliesi, in Rassegna sindacale. Quaderni, 1981, 89).

L’instabilità occupazionale si traduceva nel mancato riconoscimento delle qualifiche, in orari di lavoro prolungati, in livelli di sottosalario più accentuati rispetto agli uomini e in una generale compressione dei diritti sindacali, che ha condotto ad una forte evasione contributiva del 50%.

L’intermediazione di manodopera, nonostante fosse vietata dalla L. n. 1369/1960, ha sempre influito sulle dinamiche retributive e sugli stessi livelli occupazionali delle singole lavoratrici, agendo da manipolatrice del mercato del lavoro ed espellendo le lavoratrici più sindacalmente attive o, comunque, meno propense ad accettare condizioni di lavoro unilateralmente stabilite. Nondimeno l’intermediazione della manodopera è stata la causa di tragici eventi che hanno portato alla morte di numerose lavoratrici: è il caso del decesso di 3 giovani braccianti di Ceglie Messapica, comune in provincia di Brindisi, vittime di un incidente stradale il 19 maggio 1980 (v. Federbraccianti di Brindisi, Per nuove condizioni di vita e di lavoro nelle campagne, s.l., s.n., 1981).

Si può trarre la conclusione che la donna sia stata, ed lo è ancora tutt’oggi, soggetta a condizioni di ricattabilità, soprattutto se sottoposta a caporalato, fenomeno che rappresenta il filo rosso (sangue) delle diverse tappe dello sviluppo economico del nostro Paese già a partire dal XIX secolo.

È “servita” l’ennesima vittima, donna e italiana, per approvare la L. 29 ottobre 2016 n. 199, che prevede disposizioni in materia di contrasto al fenomeno del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo. Un provvedimento che, pur se non privo di lacune, soprattutto relative alla parte promozionale della Rete del lavoro agricolo di qualità (v. già M. D’Onghia, C. De Martino, Gli strumenti giuslavoristici di contrasto allo sfruttamento del lavoro in agricoltura nella legge n. 199 del 2016: ancora timide risposte a un fenomeno molto più complesso, in WP CSDLE “Massimo D’Antona”.IT., 2018.), garantisce una maggior tutela alle lavoratrici e ai lavoratori mediante gli indici di sfruttamento di cui all’art. 1.  La L. n. 199/2016, riproponendo sommariamente l’art. 12 del d.l. 138/2011, stila una serie di indici che modificano l’art. 603 bis c.p. e in presenza dei quali, anche di uno solo di essi, si materializza la fattispecie di sfruttamento del lavoro, ovvero quel trattamento, non solo economico, praticato nei confronti di lavoratrici e lavoratori che non consente di vivere dignitosamente. Tali indici sono riconducibili a 4 tipizzazioni che individuano in negativo le fondamenta di un “sano rapporto di lavoro”: 1) la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi   nazionali o territoriali; 2) la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie; 3) la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro; 4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.

Sul tema è intervenuta anche l’Unione Europea. Nella recente riforma della Politica Agricola Comune (PAC), la questione delle discriminazioni di genere e dello sfruttamento della manodopera femminile viene toccata secondo due prospettive (v. Regolamento (UE) 2021/2115 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 2 dicembre 2021 recante norme sul sostegno ai piani strategici che gli Stati membri devono redigere nell’ambito della politica agricola comune (piani strategici della PAC) e finanziati dal Fondo europeo agricolo di garanzia (FEAGA) e dal Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR) e che abroga i regolamenti (UE) n. 1305/2013 e (UE) n. 1307/2013).

Nella prima, l’Unione Europea auspica che i Piani strategici degli Stati membri, beneficiari dei finanziamenti europei, introducano misure volte a raggiungere obiettivi specifici, tra i quali figura “la promozione, la crescita, la parità di genere (…)” (v. art. 6, lett. h) e la “partecipazione delle donne allo sviluppo socioeconomico delle zone rurali, prestando particolare attenzione all’agricoltura, tramite il sostegno al ruolo fondamentale delle donne” (Considerando 33).

In secondo luogo, l’art. 14, comma 1, istituisce un meccanismo di “condizionalità sociale” vincolato alle condizioni di lavoro adottate nelle aziende agricole. In sostanza, gli Stati membri, nella redazione dei piani nazionali della PAC, devono introdurre delle sanzioni economiche da comminare nei confronti degli agricoltori che violano le norme in materia di condizioni di lavoro e di impiego. Si tratta di sanzioni amministrative che dovrebbe acquisire i tratti, dunque, di una esclusione – o riduzione – dai finanziamenti comunitari, quest’ultimi ormai essenziali per la sopravvivenza delle imprese agricole soprattutto a partire dagli anni Ottanta.

Invero, nell’Allegato IV del Regolamento, menzionato nell’art. 14, non vi è uno specifico riferimento alla parità di condizioni di lavoro tra uomo e donna (soprattutto se si pensa alla proposta precedentemente emendata dal Parlamento Europeo e approvata il 23 ottobre 2020; v. art. 11 bis); nondimeno si ritiene che le “condizioni di lavoro” richiamate dall’art. 14 del Regolamento non possano ignorare, nella elaborazione del Piano Strategico nazionale della PAC, il Codice delle Pari Opportunità, d.lgs n. 198/2006, e nello specifico, gli artt. 28-29, riguardanti l’obbligo di adottare un trattamento paritario tra uomini e donne sia per “qualunque aspetto o condizione delle retribuzioni”, sia per “l’attribuzione delle qualifiche, delle mansioni e la progressione nella carriera”.

La precarietà e lo sfruttamento “di genere” in agricoltura è ben lungi dall’essere estirpato. Tuttavia, la combinazione delle previsioni contenute nella L. n. 199/2016 e, auspicabilmente, nel prossimo Piano Strategico italiano della PAC dovrebbero offrire nuovi strumenti volti ad arginare il fenomeno, nella prospettiva di colpire le condotte illecite non solo sul piano penalistico, ma anche su quello economico, escludendo dai benefici comunitari quelle imprese agricole che fanno dello sfruttamento (paraschiavistico) e della discriminazione la strada per ridurre i costi del lavoro e aumentare i profitti.

 

 

*Comunicazione inviata per il Seminario “Quanto siamo EQUAL?”, svoltosi presso il Dipartimento di scienze giuridiche dell’Università di Udine, l’8 marzo 2022, in occasione del secondo anniversario della messa on line del portale.

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