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Il “sistema diffuso” come modello per l’inclusione

Diversity & Inclusion - Daniele Gasparini - 16 Gennaio 2022

Il diversity management trae la sua forza da una chiara e definita mission aziendale, da una progettualità che ne garantisca una capillare diffusione e integrazione nelle prassi organizzative e una partecipazione attiva “dal basso”, attraverso una responsabilità diffusa e una crescente autonomia di tutti gli attori dell’organizzazione in connessione tra loro.

Tale assunto di base può trovare un interessante banco di prova nella considerazione congiunta di due contesti in cui il tema dell’inclusione fa da filo conduttore: l’organizzazione d’impresa e l’accoglienza migranti. In quest’ottica, concernente prevalentemente le politiche di diversity management, si possono trovare spunti di riflessione nel libro Una storia scritta con i piedi di Rita Coco e Roberta Ferruti.

Il testo, oltre a un’accurata analisi di carattere storico, geografico, socio-economico e normativo, affronta il tema dell’accoglienza dei migranti attraverso l’analisi dei diversi programmi governativi attuati sul territorio italiano. Proprio a partire da tali programmi, ho cercato di rileggere il tema dell’accoglienza e dell’inclusione in chiave organizzativa. Il lavoro, infatti, rappresenta “lo strumento chiave per l’integrazione e l’inclusione sociale dei migranti” (W. Chiaromonte, M.D. Ferrara, 2020)

Tra i progetti citati nel testo forse il più conosciuto è il “progetto Riace”, che prende il nome dal Comune in provincia di Reggio Calabria che, nel 1998, diede ospitalità a 300 profughi provenienti dal Kurdistan. In quell’occasione, nacque l’associazione Città Futura per gestire l’accoglienza dei migranti: si misero a disposizione vecchie case abbandonate dai proprietari emigrati in altri paesi, salvaguardando così il territorio a rischio di spopolamento.

Il progetto, nato all’interno del progetto nazionale SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) volto a garantire il processo di integrazione sociale ed economica dei migranti, si estese anche all’accoglienza dei richiedenti asilo. Il progetto riuscì a mantenere in vita servizi di primaria importanza, come la scuola, e finanziare il Comune con progetti di microimprenditorialià legati all’artigianato e all’agricoltura.

Il pieno coinvolgimento degli abitanti del luogo, la creazione di un’autonomia responsabile (con un budget assegnato a ciascun nucleo famigliare accolto), la fornitura degli strumenti (pratici e culturali) utili a una rapida ed efficace messa in pratica delle proprie competenze, la creazione di piccoli spazi commerciali in cui operare e/o gestire e la stretta connessione fisica e progettuale tra gli stessi ha permesso a Riace di divenire il luogo dell’accoglienza, dell’integrazione e dell’inclusione.

Il modello dell’accoglienza diffusa appare molto interessante e ci fornisce importanti elementi per la creazione di un modello aziendale di diversity management.

Innanzitutto, l’inclusione può avvenire solo se:

è un progetto ampio: coinvolge l’intera popolazione e i diversi stakeholder

sa conciliare bisogni del contesto (continuità dei servizi/attività) con quelli delle persone che abitano e vivono gli spazi (realizzazione, valorizzazione delle competenze, partecipazione attiva, ecc…);

è un progetto distribuito ovvero che si realizza in ogni area e attività: ciascuno può agirlo sulla base di principi e regole condivise, in autonomia, permettendo una più rapida ed efficace contaminazione culturale e rispondenza alle specifiche esigenze.

Nel “modello Riace” ciascuno ha la possibilità di agire le proprie competenze frutto non solo e non sempre di apprendimento basato sullo studio, ma spesso frutto di osservazione, pratica, trasferimento di conoscenze, e così via, rendendo quindi fruibile alla comunità non solo il prodotto della competenza, ma la competenza stessa. In termini organizzativi, parleremmo di organizzazione che apprende o learning organization.

Si tratta di un sistema diffuso in cui ciascun attore partecipa attraverso ciò che ha, sa, sa fare e aggiungiamo, sa essere e sa far sapere in una logica di continua e diffusa trasmissione di saperi e abilità.

La “diffusione”, ovvero la presenza capillare nel territorio della microimprenditorialità, ha la capacità di far arrivare più velocemente i cambiamenti alla periferia del progetto e dal territorio trarre nuovi spunti e sollecitazioni.

A Riace, infatti, è risultato evidente come nei negozi di artigianato, oltre a realizzare prodotti dell’artigianato dei migranti, si ricevessero e integrassero gli elementi culturali e le esigenze della cultura locale, realizzando qualcosa di nuovo in cui si univano, senza sparire, le due culture per dare vita a qualcosa di nuovo e indissolubile.

Ogni elemento del progetto (microimpresa, attività, evento) è quindi “il progetto” poiché ne incarna mission, obiettivi e valori. Partendo dalle risorse interne in stretta connessione tra loro e dalla partecipazione attiva degli attori coinvolti, si riescono a offrire risposte efficaci e tempestive basate su ascolto dei bisogni, condivisione, collaborazione.

Si crea, quindi, quella che potremmo chiamare una democrazia partecipativa fondata su principi di equità, cooperazione, valorizzazione e radicamento dei valori.

L’ospitalità in strutture distribuite sul territorio ha facilitato gli ospiti degli SPRAR nella conoscenza reciproca con il territorio, dei suoi servizi e delle modalità di accesso agli stessi in autonomia, favorendo così il processo di inclusione sociale dei singoli e di singoli gruppi di richiedenti asilo all’interno di ogni singola comunità. Attraverso la relazione e la conoscenza reciproca con singoli volontari o la collaborazione all’interno di associazioni e parrocchie e in singole attività, la persona richiedente asilo ha avuto la possibilità di sviluppare una propria rete di conoscenze, amicizie e sostegno, sentendosi parte della comunità.

C’è quindi, a mio avviso, in questo modello la sintesi non solo di progetti di inclusione sociale, ma gli elementi da cui attingere per progettare l’inclusione all’interno dell’organizzazione e che provo qui a riassumere:

– progetto chiaro e condiviso;

– coinvolgimento di tutta l’organizzazione alla mission del progetto;

– possibilità per ciascuna persona di agire in base alle proprie competenze e trasmettere le proprie competenze in una logica di apprendimento continuo;

– possibilità per le persone di ruotare all’interno dell’organizzazione per conosce e farsi conoscere;

– condivisione di procedure e standard;

– organizzazione piatta (velocità di comunicazione e diffusione bidirezionale centro-periferia, periferia-periferia);

– stimolo all’autonomia e alla responsabilità;

– creazione di momenti di aggregazione e condivisione (sia di tipo progettuale che informali);

– creazione e facilitazione di una rete di contatti e relazioni;

– visione temporale di lungo-medio termine del progetto.

Ritroviamo qui gli elementi tipici delle auto-organizzazioni (in tal senso si veda L’inclusione organizzativa e la competitività d’impresa) in cui delega di potere e di autorità, controllo distribuito, responsabilità per i propri risultati all’interno di un alveo di linee guida (più che regole) in grado di orientare (e liberare) i comportamenti.

Potremmo pensare allora all’accoglienza non tanto come a uno dei processi che anticipano integrazione e inclusione, ma come un processo continuo in cui si mette in atto nello stesso tempo integrazione e inclusione. Di certo, è essenziale costruire un “patto” tra i molteplici attori coinvolti, attorno a una progettualità condivisa dove valori, vision e obiettivi rappresentino le basi di un sentire collettivo e di un progetto comune verso la piena inclusione e la non discriminazione

 

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