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Carta Famiglia: l’esclusione dei cittadini stranieri è discriminatoria

Giurisprudenza - Daniela Lafratta - 21 Dicembre 2021

 

La vicenda, alla base della sentenza della Corte di Giustizia del 28 ottobre 2021, C-462/2020, trae origine da una richiesta avanzata al Dipartimento per le politiche della famiglia della Presidenza del Consiglio dei Ministri, dall’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI), Avvocati per niente Onlus (APN)e l’Associazione NAGA – Organizzazione di volontariato per l’Assistenza Socio-Sanitaria e per i Diritti di Cittadini Stranieri, Rom e Sinti. Tali associazioni avevano chiesto la disapplicazione della normativa recante disposizioni sulla “Carta famiglia”, nella parte in cui escludeva dal godimento dei relativi benefici i cittadini extra Ue, titolari di uno status protetto dal diritto dell’Unione. Dinanzi al silenzio protratto dell’amministrazione, le istanti si erano rivolte con ricorso al Tribunale di Milano, attivando in tal modo il procedimento speciale per le controversie in materia di discriminazione.

In particolare, le ricorrenti hanno lamentato un illecito e ingiustificato differente trattamento nei confronti di persone che, in materia di sicurezza sociale e accesso ai beni e servizi, pur prive della cittadinanza italiana, sono parificate ai cittadini dal diritto dell’Unione europea.

Il Tribunale di Milano ha quindi sospeso il procedimento e sottoposto alla Corte di Giustizia quattro questioni pregiudiziali. Il tribunale, in sostanza, ha chiesto alla Corte se l’articolo 11, paragrafo 1, lettera d), o l’articolo 11, paragrafo 1, lettera f), della direttiva 2003/109, l’articolo 12, paragrafo 1, lettera e), o l’articolo 12, paragrafo 1, lettera g), della direttiva 2011/98, l’articolo 14, paragrafo 1, lettera e), o l’articolo 14, paragrafo 1, lettera g), della direttiva 2009/50e l’articolo 29 della direttiva 2011/95 debbano essere interpretati nel senso che essi ostano a una normativa di uno Stato membro che esclude i cittadini di paesi terzi contemplati da tali direttive dal beneficio di una carta della famiglia che consente di ottenere sconti o riduzioni tariffarie in occasione dell’acquisto di beni e servizi forniti da soggetti pubblici o privati che hanno concluso una convenzione con il governo di tale Stato membro.

Si rende preliminarmente necessario esaminare la natura della “Carta famiglia”, ovvero valutare se la sua funzione possa essere legittimamente ricondotta agli strumenti di welfare di cui alle direttive ricordate, nonché al Regolamento n. 883/2004 e conseguentemente valutare se appare possibile ricondurre nell’alveo di tali misure lo strumento di cui si discute.

Quanto alla prima questione: si tratta di una carta acquisti che, rilasciata in via telematica dal Dipartimento per le politiche della famiglia della Presidenza del Consiglio dei Ministri, consente ai nuclei familiari, cittadini italiani o dell’Unione Europea residenti in Italia e con almeno tre figli conviventi e minori degli anni 26, che ne facciano richiesta, di accedere a sconti e riduzioni tariffarie per acquistare beni e servizi offerti dalle attività commerciali aderenti. Siffatto impianto di agevolazione sul costo dei beni o servizi presenta una natura ibrida rappresentando il concorso tra privati aderenti all’iniziativa e soggetti pubblici che, ricorrendone i requisiti normativi, rilasciano la card.

Ciò posto, deve rilevarsi che la giurisprudenza di legittimità ha individuato nell’art. 38 Cost. il fondamento delle politiche sociali adottate in un regime di welfare state. Al primo comma di questa disposizione si fa riferimento alle prestazioni di assistenza sociale cui, attraverso la fiscalità generale, soccorre lo Stato in tutti i casi in cui il cittadino risulta sprovvisto dei mezzi necessari al suo stesso mantenimento. Al contrario, il comma secondo, trattando di misure previdenziali, associa l’erogazione di dette prestazioni allo status di “lavoratore”. Orbene, ai fini della presente analisi rileva il fatto che il comma primo appena ricordato si riferisce ai cittadini. Ciò sembrerebbe far propendere per la legittimità dell’esclusione dei “non cittadini” dai benefici riconosciuti con l’erogazione della carta. A ben vedere, però, tale esclusione darebbe luogo, sotto un certo profilo, a una disparità di trattamento non conforme al diritto europeo, che parifica i cittadini e gli stranieri a determinate condizioni.

Oltre a ciò, il Ministero resistente ha osservato che “la carta della famiglia non rientra nelle nozioni di «assistenza sociale» o di «protezione sociale», ma costituisce una misura di sostegno alla famiglia e di abbattimento dei costi dei servizi per la famiglia”. Tale qualificazione sgancia la carta dal requisito reddituale dei beneficiari, e pertanto impedisce di considerarla una misura assistenziale, secondo quanto previsto dal comma primo art. 38 Cost. Si aggiunga il fatto che si tratta di un’iniziativa che non gode del finanziamento pubblico, visto che gli sconti sono praticati dai fornitori di beni e servizi aderenti alla convenzione. Ciò inevitabilmente si riverbera sulla possibilità di sussumere la fattispecie nell’ambito oggettivo della direttiva 2011/98, in quanto la carta della famiglia non può essere considerata una prestazione familiare, ovvero nell’ambito oggettivo della direttiva 2009/50, o della direttiva 2011/95.

Tali considerazioni possono essere condivise solo parzialmente.

Da un lato, va detto che, la qualificazione giuridica di una data prestazione, secondo costante giurisprudenza della CGUE, è basata essenzialmente sugli elementi costitutivi di essa, “in particolare le sue finalità e i presupposti della sua concessione” a nulla rilevando il nomen dalla normativa nazionale [sentenza 21 giugno 2017, Martinez Silva, C-449/16; sentenza 2 aprile 2020, Caisse pour l’avenir des enfants (Figlio del coniuge di un lavoratore frontaliero), C-802/18, punto 35; sentenza del 24 ottobre 2013, Lachheb, C‑177/12, punto 28; sentenza del 20 gennaio 2005, Noteboom, C-101/04; sentenza del 16 luglio 1992, Hughes, C- 78/91, punto 14 e punto 24].

Tuttavia, nel caso di specie, come osservato da parte resistente, “la finalità di detta carta è l’ottenimento di sconti o di riduzioni tariffarie concessi da tali fornitori, che ne sopportano il costo e la cui partecipazione a tale azione in favore delle famiglie è volontaria”. Pertanto, sul condiviso presupposto che la carta della famiglia non costituisce una prestazione avente natura di contributo pubblico e in nessun modo la collettività partecipa al supporto del carico familiare, non risulta possibile ricondurre la carta famiglia al Regolamento n. 883/2004, posto che, esso opera nel caso di  prestazioni familiari destinate ad aiutare socialmente i “lavoratori”. Siffatta interpretazione porta a concludere per la parziale conformità della normativa nazionale al diritto europeo, stante la non configurabilità della carta famiglia tra le prestazioni di sicurezza sociale. Tale assunto genera un effetto a cascata su parte delle direttive richiamate dal giudice del rinvio. Infatti, a parere, della CGUE, l’esclusione dei cittadini dei paesi terzi dal godimento dei benefici risultanti dall’utilizzo della carta famiglia non osta alle disposizioni di cui all’art. 12, paragrafo 1, lett. lettera e), direttiva 2011/98 e l’articolo 14, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2009/50. Invero, le norme appena menzionate riguardano rispettivamente le prestazioni di sicurezza sociale per i lavoratori di paesi terzi soggiornanti nel territorio di uno stato membro (possessori di permesso di soggiorno per motivi di lavoro) o titolari di carta blu (titolo di soggiorno per lavoratori altamente qualificati). Tuttavia, la Corte non giunge a medesima soluzione in riferimento all’accesso ai beni e servizi di cui all’articolo 11, paragrafo 1, lettera f), della direttiva 2003/109, l’articolo 12, paragrafo 1, lettera g), della direttiva 2011/98 e l’articolo 14, paragrafo 1, lettera g), della direttiva 2009/50 che impongono una piena parità di trattamento e pertanto un’identica ammissione al godimento di benefici nell’accesso a beni e servizi.

Pertanto, profili discriminatori vengono individuati con specifico riferimento all’accesso ai beni e servizi. Rileva, infatti la Corte, l’avvenuta violazione del diritto alla parità di trattamento lì dove il diritto interno ha inteso escludere i cittadini di stati terzi dal rilascio e utilizzo della carta famiglia. Di talchè, l’esclusione dei cittadini di paesi terzi dal riconoscimento del beneficio è, a parere della CGUE, discriminatorio e quindi, essendo in violazione del diritto dell’Unione, la disposizione deve essere modificata rimuovendone ogni effetto discriminatorio.  A tale medesima conclusione la Corte giunge in riferimento all’esclusione dei beneficiari di protezione internazionale ma non anche ai richiedenti protezione.

Volutamente, stante il continuo dibattito politico europeo sulle politiche di accoglienza, si è riservato uno spazio finale alla questione. A parere di chi scrive, infatti, esiste un profondo vuoto normativo in riferimento ai soggetti richiedenti asilo. Per quanto si è detto fin qui, anche alla luce della sentenza in commento che ha ripristinato la parità di trattamento per cittadini di paesi terzi, lavoratori, soggiornanti di lungo periodo e titolari di asilo politico ovvero protezione sussidiaria, è evidente come nessuna tutela venga riservata dalla disciplina europea e da quella nazionale ai richiedenti asilo. Il dettaglio non è di scarsa rilevanza, posto che i migranti richiedenti protezione giungono sul territorio nazionale in grave stato di vulnerabilità e spesso fuggendo dal proprio paese natale in stato di guerra. Si pensi ai nuclei familiari provenienti dall’Afghanistan, dalla Siria, dal Kurdistan, Iraq o Iran o molti altri scenari di dittatura, guerra o grave povertà. Affinché venga riconosciuto loro uno status di protezione internazionale i tempi procedurali, in Italia, non sono brevi e sovente tali famiglie attendono anche 18 mesi perché venga assunta una decisione in loro favore e non sempre i richiedenti vivono in un circuito di accoglienza idoneo ad assicurargli il soddisfacimento dei bisogni essenziali. Nella stessa condizione si trovano i beneficiari di permesso di soggiorno per motivi umanitari, oggi protezione speciale, misura residuale di protezione.

Concludendo, se da un lato vi è grande merito nella sentenza della CGUE grazie alla cui pronuncia sarà – si auspica presto-  ripristinata la dovuta parità di trattamento, non ci si può esimere dal rilevare che nelle priorità del legislatore europeo e italiano non vi è spazio alcuno per la tutela di fasce di popolazione straniera, gravemente vulnerabile, come quella dei richiedenti asilo e dei possessori di permesso di soggiorno ex art. 19, d.lgs n. 286/1998 con gravi ripercussioni sulla parità di trattamento e, consequenzialmente, sulla loro dignità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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