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La trasparenza salariale per la parità retributiva: in arrivo la direttiva europea

Attualità - Anna Zilli - 19 Aprile 2021

Il tema della parità retributiva di genere è uno dei principi fondanti il diritto del lavoro. Superate le leggi sulle c.d. mezze forze, la Costituzione repubblicana del 1948 ha centrato il punto nell’art. 37, secondo cui «la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore»: quella «parità di lavoro» è stata poi declinata come diritto all’uguaglianza retributiva tra «manodopera maschile e manodopera femminile per un lavoro di valore uguale» (ILO, Convenzione n. 100 e Risoluzione n. 90 del 1951).

Il medesimo principio è stato accolto nei trattati Europei: dapprima nel Trattato di Roma sulla Cee, ove l’articolo 119 stabilì l’obbligo per gli Stati membri di rispettare il principio della parità di retribuzione tra lavoratori e lavoratrici per uno stesso lavoro. La previsione fu poi modificata con l’articolo 141 del Trattato di Amsterdam del 1997 nel senso che «Ciascuno Stato membro assicura l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore. Per retribuzione si intende, a norma del presente articolo, il salario o trattamento normale di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo…»

La direttiva 75/117 prima e 2006/54/CE poi hanno previsto che «per quanto riguarda uno stesso lavoro o un lavoro al quale è attribuito un valore uguale, occorre eliminare la discriminazione diretta e indiretta basata sul sesso e concernente un qualunque aspetto o condizione delle retribuzioni. In particolare, qualora si utilizzi un sistema di classificazione professionale per determinare le retribuzioni, questo deve basarsi su principi comuni per i lavoratori di sesso maschile e per quelli di sesso femminile ed essere elaborato in modo da eliminare le discriminazioni fondate sul sesso».

Si tratta però di formule di difficile implementazione, che nemmeno il divieto di discriminazioni previsto dall’art. 28 del Codice delle pari opportunità (d.lgs. n. 198/2006) è riuscito a far diventare previsioni concretamente e sistematicamente applicate.

Nel lavoro  “sapere è potere” e per comparare i trattamenti è necessario utilizzare uno strumento efficace nella lotta alle disuguaglianze: la trasparenza salariale, cioè la conoscibilità dei trattamenti retributivi effettivamente corrisposti nel contesto di lavoro di interesse, rappresenta una interessante chiave per accedere alle informazioni necessarie

Che l’abbattimento delle asimmetrie informative rappresenti uno snodo fondamentale per le pari opportunità nei rapporti di lavoro, non è affatto una novità: la trasparenza salariale, a qualunque livello ci si posizioni, rappresenta dunque una condizione necessaria per combattere le disuguaglianze.

Nella consapevolezza che difficilmente i Paesi europei avrebbero intrapreso percorsi ulteriori rispetto a quelli accolti con la Risoluzione del 2014, la promozione della trasparenza salariale a livello dell’UE è stata affidata alla Proposta di direttiva 2021/93 del Parlamento e del Consiglio «per rafforzare l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore attraverso la trasparenza delle retribuzioni e meccanismi esecutivi».

In primo luogo, la proposta tenta di chiarire cosa si intenda per «lavoro di pari valore», chiedendo che il confronto tra posti e retribuzioni avvenga secondo oggettivi e neutri dal punto di vista del genere, quali l’istruzione, i requisiti professionali e di formazione, le competenze, l’impegno e le responsabilità, il lavoro svolto e la natura delle mansioni da svolgere. Si osserva come la proposta non impedisca ai datori di lavoro di retribuire in modo diverso lavoratori che svolgano lo stesso lavoro o un lavoro di pari valore, ma si chiede che tali differenze siano basate su criteri oggettivi, neutri dal punto di vista del genere e senza pregiudizi. Questo consentirebbe, a livello nazionale, di agevolare la prova della discriminazione, superando anche l’orientamento giurisprudenziale che ha sinora consentito erogazioni e premi differenziati discrezionalmente.

La proposta compone un concetto ampio di retribuzione, che comprende non solo la retribuzione-base, ma anche le componenti accessorie, in denaro o in natura, che i lavoratori ricevono direttamente o indirettamente dal datore di lavoro. Il riferimento è a gratifiche, indennità per straordinari, servizi di trasporto (comprese le autovetture fornite dal datore di lavoro e gli abbonamenti), indennità di alloggio, indennità per la partecipazione a corsi di formazione, somme erogate in caso di licenziamento, maggiorazioni per straordinari, una tantum discrezionali, indennità di malattia previste per legge, indennità obbligatorie per legge e trattamenti pensionistici complementari.

Relativamente all’ambito di applicazione, la proposta riguarda tutti i lavoratori, compresi i lavoratori a tempo parziale, a tempo determinato e tramite agenzia. I lavoratori domestici, a chiamata, occasionali e impiegati tramite piattaforma digitale, nonché i tirocinanti e gli apprendisti, rientrano nell’ambito di applicazione della (proposta di) direttiva, a condizione che soddisfino i criteri che stabiliti dalla Corte di giustizia per individuare chi sia un lavoratore. Dal lato dei datori, la proposta comprende sia il settore pubblico che quello privato, prevedendo che, sin dall’offerta di lavoro, essi dovranno essere trasparenti, offrendo ai candidati informazioni obiettive sulla retribuzione collegata alla posizione offerta, da comunicare attraverso un’offerta pubblica, oppure in occasione delle selezioni. Altresì, ai datori di lavoro sarà vietato indagare sulle precedenti condizioni stipendiali del/la candidato/a.

Quanto ai profili processuali, la direttiva proposta stabilisce che, qualora il datore di lavoro non abbia rispettato i propri obblighi di trasparenza, chi si ritenga discriminato/a non dovrà nemmeno presentare le prove della discriminazione, perché spetterà al datore di lavoro dimostrare l’assenza di discriminazione. Poiché notoriamente i costi del contenzioso costituiscono un ostacolo procedurale che crea un grave disincentivo per le vittime di discriminazione retributiva di genere a rivendicare il diritto alla parità di retribuzione, al fine di garantire un maggiore accesso alla giustizia e per incentivare i lavoratori a far valere i propri diritti, nell’ipotesi in cui i lavoratori siano soccombenti le spese devono essere compensate, a meno che la causa non sia stata intentata in malafede, per motivi pretestuosi o nei casi in cui il mancato recupero sia considerato irragionevole in relazione al caso concreto.

Quanto invece agli aspetti sanzionatori, si chiede agli Stati membri di approntare meccanismi sanzionatori effettivi, proporzionati e dissuasivi, che tengano conto della gravità e della durata dell’infrazione, di qualsiasi intenzione o negligenza grave da parte del datore di lavoro o di qualsiasi altra circostanza del caso (art. 15).

Altresì, i soggetti discriminati avranno diritto al pieno risarcimento per ogni pregiudizio patito, comprese la perdita di chances e i danni alla persona che lavora: su di essi il legislatore dovrà esprimersi «evitando di prevede un tetto per i risarcimenti  ma anche di perpetuare le discrezionalità connesse alla assai spinosa questione, relativa all’esercizio del potere equitativo del giudice quando si tratta di lesioni alla personalità morale del prestatore.

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