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La tutela delle persone disabili nella scuola e nell’università

Attualità - Giuseppe Di Genio - 3 Dicembre 2020

È difficile fare le cose difficili:
parlare al sordo mostrare la rosa al cieco.

Bambini, imparate a fare le cose difficili:
dare la mano al cieco, cantare per il sordo,
liberare gli schiavi che si credono liberi.

Gianni Rodari

 

Il 3 dicembre 2020 è una giornata di sole nel blu del cielo per i diritti fondamentali dei disabili (c.d. blue rights). I diritti fondamentali devono trionfare anche nella tragedia del Covid-19 mostrando sempre più attenzione verso i soggetti disabili, senza speculazioni di sorta (a volte legate alla legge n. 104 del 1992), e alle nuove forme di disabilità, conseguenti alla evoluzione stessa della nostra società e del bene comune.

La Corte Costituzionale nella fondamentale sentenza n. 80 del 2010 ha affermato che i disabili non costituiscono un gruppo omogeneo. Vi sono, infatti, forme diverse di disabilità: alcune hanno carattere lieve e altre gravi. Per ognuna di esse è necessario, pertanto, individuare meccanismi di rimozione degli ostacoli che tengano conto della tipologia di handicap (oramai un vecchio termine in disuso) da cui è portatrice in concreto una persona. Ciascun disabile è coinvolto in un processo di riabilitazione finalizzato a un suo completo inserimento nella società; processo all’interno del quale l’istruzione e l’integrazione scolastica rivestono un ruolo di primo piano. E’ di questi giorni, per esempio, la notizia che Alessio un ragazzo autistico ha conseguito la laurea a pieni voti al Conservatorio di Palermo, a conferma che il disturbo dello spettro autistico (di cui alla legge n. 134 del 2015), quasi tre casi ogni 1000 bambini, non è una malattia ma una condizione di vita che collega, in un interscambio istituzionale, salute, persona e vita sociale.

Come è noto il 3 dicembre si è scelto di celebrare la Giornata Internazionale delle persone con Disabilità, istituita nel lontano 1981, Anno Internazionale delle Persone Disabili, al fine di promuovere una più diffusa e approfondita conoscenza sui temi complessi della disabilità, per sostenere la piena inclusione delle persone con disabilità in ogni ambito della vita, nella scuola, nell’università, nel lavoro e per allontanare ogni forma di discriminazione e violenza nello Stato di cultura contemporaneo.

Proprio in questi mesi la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con la sentenza del 10 settembre 2020 ha condannato l’Italia per condotta discriminatoria nei confronti di una bambina autistica senza adeguata assistenza scolastica nei primi anni della scuola primaria.

Infatti, nelle scuole italiane gli assistenti all’autonomia e alla comunicazione (assistente ad personam) che affiancano gli insegnanti per il sostegno, sono pochi e poco meno di 54 mila (19 per 100 alunni con disabilità). Si tratta di operatori specializzati, finanziati dagli enti locali, la cui presenza può migliorare molto la qualità dell’azione formativa, facilitando la comunicazione dello studente con disabilità e stimolando lo sviluppo delle abilità nelle diverse dimensioni della sua autonomia. A livello nazionale, per l’Istat, il rapporto alunno/assistente è pari a 4,8; nel Mezzogiorno cresce a 5,8 con punte massime in Campania e in Molise, dove supera rispettivamente la soglia di 14 e 13 alunni per ogni assistente. La presenza di assistenti aumenta nelle regioni del Centro e del Nord (4,4) raggiungendo i livelli più alti nella Provincia Autonoma di Trento e nelle Marche, con un rapporto che non supera la soglia di 3 alunni per assistente.

Certo il nostro ordinamento giuridico ha un quadro costituzionale inclusivo forte (è una Costituzione inclusiva) che, pur datato, rende ampiamente conto della tutela sociale dei diritti dei disabili nel contesto della vita quotidiana.

Basti pensare non solo e non tanto, in un mix di Welfare State, educativo e culturale (il ben noto Stato di Cultura di Enrico Spagna Musso), al classico richiamo agli artt. 2 e 3 Cost., alle condizioni personali e sociali nell’ottica di un pluralismo diffuso, al tema dei nuovi diritti, ma anche e soprattutto all’art. 38 Cost. con il suo modello complesso di integrazione a 360 gradi.

Ad esempio, nella scuola, il dato statistico, certificato dall’ISTAT, sulla disabilità è alquanto importante da alcuni anni a questa parte. I numeri della disabilità in Italia sono alti e l’handicap finanziario dello Stato è notevole in termini di tutela (da ultimo, C. Cost. n. 152 del 2020).

Ci sono in Italia, circa 284.000 studenti disabili, il 12% stranieri, circa 186.00 DSA (quelli della legge n. 170 del 2010), molti BES (non soggetti a normazione primaria) e situazioni di comorbilità, più di 170.000 docenti di sostegno che non riescono a coprire, tra mille difficoltà e problematiche, nonostante corsi e concorsi in itinere, il fabbisogno scolastico nelle Regioni italiane.

L’Istat, nel suo ultimo report, rileva che nell’anno scolastico 2018-2019 nelle oltre 55.000 scuole sono ancora troppe le barriere fisiche presenti nelle relative strutture: solamente una scuola su 3 risulta accessibile per gli alunni con disabilità motoria. La situazione appare migliore nel Nord del Paese dove si registrano valori superiori alla media nazionale (38% di scuole a norma) mentre peggiora, raggiungendo i livelli più bassi, nel Mezzogiorno (29%). La regione più virtuosa è la Valle d’Aosta, con il 67% di scuole accessibili, di contro la Campania si distingue per la più bassa presenza di scuole prive di barriere fisiche (24%). La mancanza di un ascensore o la presenza di un ascensore non adatto al trasporto delle persone con disabilità rappresentano le barriere più diffuse (46%). Frequenti sono anche le scuole sprovviste di rampe per il superamento di dislivelli (33%) o bagni a norma (29%). Rari invece i casi in cui si riscontra la presenza di scale o porte non a norma (rispettivamente 6% e 3%). Appena il 2% delle scuole dispone di tutti gli ausili senso-percettivi destinati a favorire l’orientamento all’interno del plesso e solo il 18% delle scuole dispone di almeno un ausilio. Anche in questo caso sul territorio si delinea una differenza Nord-Sud: la quota diminuisce progressivamente, passando dal 23% delle regioni del Nord al 14% di quelle del Mezzogiorno.

Il dato europeo (Nizza, Lisbona, la Carta sociale europea etc.) e internazionale (la Convenzione ONU del 2006, la risoluzione ONU del 2012 sull’autismo), quindi, non fa altro che rafforzare le diverse forme di tutela della disabilità, in itinere, la dimensione valoriale della dignità umana, le lacune ordinamentali dei singoli Stati nel dato comparato (il disability comparative law), come è testimoniato, nella scuola, formazione sociale per eccellenza, dalla svolta dell’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) con la creazione di un nuovo modello di Costituzione bio-psico-sociale.

D’altronde, poi, dal 1993, il 3 dicembre è diventato anche Giornata Europea delle Persone con Disabilità, come deciso dalla Commissione Europea, in accordo con le Nazioni Unite.

Si pensi proprio alla Convenzione ONU del 2006, ratificata in Italia con la legge n. 18 del 2009 il cui art. 24 introduce il concetto di accomodamento ragionevole nei percorsi di istruzione ai disabili e prospetta un insegnamento ai disabili anche da parte dei docenti disabili.

Figura centrale, costituzionalmente rilevante, è, proprio, il docente di sostegno, che non può essere considerato un tutor dell’inclusione (legge n. 107 del 2015, definita eccentrica dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 251 del 2017, poi seguita dai decreti legislativi delegati come il n. 96 del 2019) della e nella buona scuola, fatta solo di sigle e acronimi incomprensibili ai non specialisti (PTOF, ICF, PAI, PF, GIS, PEI, PDP etc.).

La stessa Corte Costituzionale, da sempre attenta al tema della disabilità (la legge n. 104 del 1992 è voluta dalla decisione della Consulta n. 215 del 1987, Presidente Antonio La Pergola, illustre costituzionalista) con le sentenze n. 80 del 2010 e n. 52 del 2000 ha posto il docente di sostegno, contitolare (DPR n. 122 del 2009), al centro del sistema inclusivo e della continuità educativa.

Nella sentenza n. 52 del 2000, il docente di sostegno esercita funzioni costituzionali ineliminabili ed è inserito nel contesto del personale docente specializzato, chiamato, per l’appunto, ad adempiere alle «ineliminabili (anche sul piano costituzionale) forme di integrazione e di sostegno» a favore degli alunni diversamente abili.

Si può dire che i docenti di sostegno non sono assolutamente presidi ma presìdi di legalità costituzionale nei processi di integrazione e inclusione scolastica, laddove abbiano, in una ottica solidarista e pluralista, la capacità di gestire effettivamente il quotidiano, sensato o insensato, importante o meno importante, anche apparentemente irrilevante, della disabilità scolastica e dei connessi rapporti istituzionali.

Sempre secondo l’ISTAT, nell’anno scolastico 2018/2019, gli insegnanti per il sostegno nelle scuole italiane sono quasi 173 mila (fonte MIUR). A livello nazionale il rapporto alunno-insegnante (pari a 1,6 alunni ogni insegnante per il sostegno) è migliore di quello previsto dalla Legge 244/2007 che prevede un valore pari 2. Tuttavia, mancano gli insegnanti specializzati e il 36% dei docenti per il sostegno viene selezionato dalle liste curriculari; sono docenti che rispondono a una domanda di sostegno non soddisfatta, ma non hanno una formazione specifica per supportare al meglio l’alunno con disabilità. Questo fenomeno è più frequente nelle regioni del Nord, dove la quota di insegnanti curriculari che svolge attività di sostegno sale al 47%, e si riduce nel Mezzogiorno attestandosi al 21%.

Il quadro italiano, nelle sue differenti articolazioni, che nell’epoca del Covid-19, esaltano la definizione della migliore dottrina costituzionalistica di Stato unitario a base regionale, al di là di alcune formule normative di eccellenza, si mostra, dunque, frastagliato.

Si pensi alla molteplicità di circolari (famosa quella Falcucci), direttive, chiarimenti e linee guida sulle vecchie e nuove forme di disabilità, a volte del tutto nuove, che se da un lato creano più confusione delle leggi, di per sé già fin troppo disarticolate, dall’altro, in alcuni casi, riescono ad anticipare il futuro dato legislativo.

Un esempio concreto è la disciplina dei BES, i c.d. bisogni educativi speciali, molto ben strutturati nell’esperienza anglosassone, normati in Italia solo a livello secondario, come inizialmente lo stesso ICF, conosciuti nel mondo scolastico, ma ancora ignoti, ad esempio, nel mondo universitario italiano che non presta la dovuta attenzione all’impatto degli svantaggi sociali, complessivamente intesi, sul piano del diritto allo studio ex artt. 33 e 34 Cost.

Si pensi ancora ai c.d. Neet, su cui il Governatore della Banca d’Italia Visco, recentemente, ha detto che l’Italia è al primo posto per la percentuale di giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano e non seguono percorsi di formazione: il 22 per cento della popolazione in questa fascia di età, il 33 per cento nel Mezzogiorno. Riferendosi ai Neet (not in education, employment or training), Visco ha parlato “di un drammatico spreco di potenzialità a livello non solo economico, con conseguenze particolarmente gravi proprio sul piano sociale.

Ben venga, tuttavia, nel recente DPCM del 3 novembre 2020 la salvaguardia dell’inclusione scolastica, in sicurezza, nella didattica in presenza per i diversamente abili e per i bisogni educativi speciali (BES), introducendo pro futuro, post-emergenza, una nozione unitaria e più ampia, omnicomprensiva, di disabilità, non solo e non tanto patologica, ma estesa anche ai bisogni educativi e sociali a tutela del Welfare State in una versione contemporanea del variegato fenomeno inclusivo. Come recita l’art. 1, comma 9, lettera s) “…resta salva la possibilità di svolgere attività in presenza qualora sia necessario l’uso di laboratori o in ragione di mantenere una relazione educativa che realizzi l’effettiva inclusione scolastica degli alunni con disabilità e con bisogni educativi speciali, secondo quanto previsto dal decreto del Ministro dell’istruzione n. 89 del 7 agosto 2020, e dall’ordinanza del Ministro dell’istruzione n. 134 del 9 ottobre 2020, garantendo comunque il collegamento on line con gli alunni della classe che sono in didattica digitale integrata”.

Nel dato regionale, le stesse ordinanze regionali Covid-19, dopo una fase iniziale di rodaggio ed esclusione, si sono dirette sempre più a garantire forme concrete di inclusione dei disabili nella scuola anche nella gestione dello stato di emergenza. Scuola, tuttavia, che, in alcuni casi, come ultima trincea del coronavirus e della legalità democratica, è resa aperta per i disabili ma viene chiusa per i normodotati, nonostante la piena osservanza dei protocolli di sicurezza, in dispregio di quel progetto di socializzazione fondamentale per la crescita di entrambi (disabili e normodotati, insieme, nell’apprendere), oltre il sistema delle percentuali numeriche in classe (DPR n. 81 del 2009).

Nella lontana sentenza n. 215 del 1987, la Corte Costituzionale ha già avuto modo di precisare che la partecipazione del disabile “al processo educativo con insegnanti e compagni normodotati costituisce, infatti, un rilevante fattore di socializzazione e può contribuire in modo decisivo a stimolare le potenzialità dello svantaggiato”.

Non a caso alcuni hanno paventato, a ragione, un ritorno inappropriato, nell’emergenza sanitaria, al modello delle classi speciali come in Germania e Olanda (sistema con distinzione) o, comunque, ad un sistema misto-bidirezionale, già presente in Gran Bretagna, Francia, Svezia, Svizzera, Belgio e Finlandia.

Siamo di fronte ad una vera e propria discriminazione alla rovescia, sul modello canadese della reverse discrimination, in cui una situazione di svantaggio diventa di vantaggio e viceversa (una situazione di vantaggio dei normodotati, nell’emergenza sanitaria, diventa di svantaggio perché sono messi fuori, con ordinanze regionali e/o DPCM, dalle classi scolastiche).

Basti citare l’esperienza della Regione Campania, dove nelle ultime ordinanze (la n. 86 del 2020 e s.m.i.) si afferma che su “…tutto il territorio regionale è confermata la sospensione delle attività didattiche in presenza per le scuole primaria e secondaria, fatta eccezione per lo svolgimento delle attività destinate agli alunni affetti da disturbi dello spettro autistico e/o diversamente abili, il cui svolgimento in presenza è consentito previa valutazione, da parte dell’Istituto scolastico, delle specifiche condizioni di contesto…”

D’altronde, i successi didattici sui disabili, frutto di una seria e scrupolosa programmazione clinico didattica, che ha superato oramai una visione spartana del sistema educativo, ci sono in varie e con varie esperienze interne ed esterne, in cui l’ausilio della didattica digitale integrata (DID), apre scenari importanti, se compatibili, per la gestione educativa dei percorsi formativi dei disabili, proprio in relazione al tipo di disabilità.

Forse, si può dire che nell’insegnamento sul sostegno, con tutte le difficoltà giornaliere, oggettive e soggettive, e nella consapevolezza delle gravi disabilità, anche le sconfitte, digitali e non, rappresentano, paradossalmente, dei piccoli successi.

L’America è lontana dall’Europa, ma c’è un giudice ad Albuquerque nel New Mexico, che, facendo valere l’American with Disabilities Act del 1990, ha obbligato, con la decisione del 14 ottobre 2020 (Hernandez vs. Grisham), una scuola sul suolo americano, al tempo del Covid-19, ad adottare un programma specifico “in presenza” per una bambina, con difficoltà di apprendimento, nativa americana, abitante in una zona con scarsi collegamenti informatici e telefonici.

Ben venga, allora, il ruolo fondamentale della famiglia, dell’associazionismo, della sussidiarietà orizzontale, in un sistema integrato di interventi (a far data dalla legge n. 382 del 2000 in Italia) che monitora quotidianamente, anche al tempo del Covid-19, prima e dopo di noi (in questo eccelle la legge n. 112 del 2016) lo stato di attuazione e garanzia dei diritti fondamentali dei disabili, rendendoli cogenti ed effettivi, ed andando oltre la loro efficacia formale, perché il sostegno è, innanzitutto, un fatto culturale, combatte la povertà educativa, è, insomma, una tappa dell’integrazione sociale di un vero ordinamento democratico che tutela la dignità umana, anche (e forse, soprattutto) nell’emergenza e nella pandemia sanitaria. Senza scomodare Cicerone, Salus rei publicae suprema lex esto, perché tutti, disabili e normodotati, devono avere le giuste chances per provare a risalire la voragine del Monte Taigeto, detta Apotete.

 

 

* L’autore è Professore associato di Diritto Pubblico Comparato presso l’Università degli Studi di Salerno

 

 

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