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L’arretramento dei diritti delle donne e la violenza di genere al tempo del Covid

Attualità - Andreina Baruffini Gardini - 25 Novembre 2020

 

La violenza di genere è stata coraggiosamente definita come “il vertice dell’iceberg, la conseguenza più estrema e definitiva di un sistema patriarcale che riproduce relazioni di genere ingiuste, ordinate gerarchicamente, complementari ed escludentesi, che si fondano su una doppia base, i modelli di genere di mascolinità e femminilità. Questa violenza è strumentale e il suo obiettivo è controllare e sottomettere le donne” [Santoro C. et al. (2018) New Directions for Preventing Dating Violence in Adolescence: The Study of Gender Models, in Frontiers in Psychology, 9, 946].

La Convenzione di Istanbul, partendo dalla consapevolezza che la violenza maschile contro le donne ha profonde radici socioculturali, raccomanda ai Paesi firmatari l’adozione di piani di intervento che agiscano non solo sulle conseguenze, ma sulle cause prime del problema.  La violenza di genere, infatti, trova terreno fertile nell’imposizione di ruoli familiari e sociali stereotipati, nel divario salariale (“gender pay gap”), nella mancata indipendenza lavorativa ed economica, nell’esclusione dalle posizioni apicali (“glass ceiling”).

Le azioni di contrasto resteranno scarsamente efficaci finché si riconoscerà alle donne parità formale nei diritti senza adoperarsi fattivamente per eliminare gli ostacoli al loro esercizio concreto, in ogni campo.

L’isolamento sociale, la crisi economica e finanziaria, l’esasperarsi delle tensioni intra-familiari, nonché la maggiore difficoltà legata all’accesso a centri antiviolenza, servizi sanitari, giudiziari e di polizia hanno favorito il verificarsi di eventi violenti all’interno delle mura domestiche, aggravando un problema che già presentava dati e numeri allarmanti, in Italia e nel resto del mondo.

L’Ente delle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere e l’empowerment delle donne (UN WOMEN) e altre organizzazioni internazionali, allertate dai dati dell’incremento delle violenze domestiche in Cina, primo paese colpito, si sono mobilitati per identificare i rischi e fornire indicazioni utili ad affrontare con gli strumenti più efficaci le situazioni denunciate, raccomandando alle istituzioni lo stanziamento di risorse aggiuntive per rafforzare e migliorare gli strumenti di intervento, nonché garantire la raccolta di dati necessaria a comprendere a fondo l’impatto del Covid-19 sul fenomeno.

In Italia sin da marzo 2020 si è avviata una campagna volta a dare estesa divulgazione agli strumenti e canali di richiesta di aiuto, quali il numero nazionale Antiviolenza 1522, i servizi di ascolto e consulenza forniti telefonicamente e online dai Centri Antiviolenza, l’applicazione “YouPol” della Polizia di Stato, creata per la segnalazione di altri reati ed estesa all’inizio del 2020 alle denunce e richieste di intervento per violenza domestica.

Anche alcune Procure della Repubblica, forti anche del primo semestre di applicazione delle previsioni della L. 19 luglio 2019, n. 69 (c.d. “Codice Rosso”), hanno adottato direttive volte a rafforzare e velocizzare la tutela delle vittime di violenza domestica, incentivando nel periodo di lock down l’immediata adozione dell’allontanamento dal contesto familiare della persona violenta (strumento sinora sottoimpiegato in Italia, per ragioni culturali stigmatizzate dalla Corte Europea nella nota sentenza Talpis, 2 marzo 2017, valutata la scarsa praticabilità della collocazione delle vittime in contesti abitativi protetti.

Ciò nonostante, le segnalazioni raccolte attraverso il numero nazionale 1522 e le forze dell’ordine hanno confermato l’incremento della violenza domestica e di genere, soprattutto durante il lock-down.

I dati Istat pubblicati fra maggio e agosto 2020 evidenziano che la percentuale di donne uccise, sul totale delle vittime di omicidio in Italia negli ultimi 10 anni è stata pari a circa un terzo delle vittime, ma nel mese di marzo 2020 ha raggiunto il 57,1% degli omicidi e che, se il totale degli omicidi in Italia nel primo quadrimestre 2020 si è complessivamente ridotto del 34,5% rispetto allo stesso periodo del 2019, i femminicidi sono rimasti numericamente invariati, dunque possono dirsi aumentati in termini relativi.

Nel contempo anche gli altri diritti delle donne rischiano pericolosi arretramenti.

La recessione lavorativa e le misure di contenimento della pandemia hanno avuto un impatto negativo anche sulla partecipazione delle donne al mercato del lavoro.

In un’Italia che vede le donne ancora fortemente sottoccupate rispetto agli uomini (donne 50,1%, uomini 68%, percentuali inferiori alla media Europea: donne 63%, uomini 73,7%, secondo i dati Istat 2019), la situazione di emergenza ha inevitabilmente compresso i diritti delle lavoratrici, più che dei lavoratori: molte le donne che hanno dovuto rinunciare al lavoro perché chiamate ad assumersi più gravosi impegni di accudimento familiare, soprattutto nei periodi di chiusura di scuole e asili; altre hanno perso i loro impieghi nel comparto di alberghi e ristorazione e in quello dei servizi domestici alle famiglie, che occupano in prevalenza figure femminili, altre ancora i loro lavori precari e meno tutelati (sempre secondo i dati Istat, presentati alla Camera dei Deputati, Commissione XI, il 12 novembre 2020). E la contrazione dell’occupazione femminile è destinata ad aumentare nei prossimi mesi, quando verranno meno i divieti di licenziamento.

L’emergenza sanitaria ha sfavorito le donne anche nella partecipazione ai ruoli apicali. Esempio eclatante di tale esclusione sono i provvedimenti straordinari adottati con urgenza dal Governo e dagli enti locali per affrontare l’emergenza sanitaria, che hanno escluso le donne sfuggendo al necessitato rispetto dei meccanismi circa la partecipazione equilibrata di donne e uomini: il Comitato Tecnico Scientifico chiamato a coadiuvare il governo all’inizio della pandemia contava 20 esperti, tutti uomini. Ma anche la task force nominata per la “fase 2”, diretta da Vittorio Colao, su 19 membri annoverava solo 4 donne, tutte accademiche.

“I diritti umani sono lenti da conquistare, ma veloci da perdere”, ha di recente ammonito la Presidente della Commissione Europea, Ursula Von der Leyen, a proposito della decisione del tribunale costituzionale polacco dello scorso 22 ottobre di considerare illegale l’interruzione volontaria della gravidanza in caso di malformazione del feto.

I diritti umani perdono terreno nei momenti emergenziali, quando l’attenzione si focalizza su altre priorità e la democrazia arretra.

Questo vale anche per i diritti affermati dalle donne nel faticoso cammino verso una parità ancora non raggiunta.

 

* L’autrice è Avvocata in Udine e vicepresidente Senonoraquando Udine

** La foto a corredo dell’articolo è diventata in breve tempo un simbolo delle manifestazioni che si sono svolte in Polonia contro la decisione del Tribunale Costituzionale di vietare l’interruzione volontaria della gravidanza.

 

 

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